Nessuna immagine di Cristo nel corso dei secoli è mai stata più cara al cuore dei cristiani di quella di Gesù buon Pastore (A.J. Si- monis). Fin dai primi secoli è rappresentato il Signore che porta sulle spalle una pecora che, se nella sua espressività richiama la parabola della pecorella smarrita (Lc 15,5), l’immagine trae la sua forza proprio dal Vangelo secondo Giovanni in questo decimo capitolo, di cui il brano di oggi fa parte.
Quando nel Vangelo di Giovanni c’è l’affermazione di Gesù Io sono, siamo dinanzi ad una dichiarazione profondamente teologica, Gesù afferma la sua condizione divina, la sua identità con il Padre che a Mosè ha rivelato il suo nome dal roveto (Es 3,14). Siamo, dunque, nell’ambito della rivelazione, della manifestazione della signoria di Gesù nell’immagine del pastore. Ezechiele aveva profetato un nuovo David, unico pastore (Ez 34,23; 37,24), nella prospettiva della restaurazione dell’unità di Israele e del raggruppamento dei dispersi in un popolo unico (Ez 37,22).
Gesù non è un pastore come tanti altri, ma il pastore vero; in greco è detto ò kalòs tradotto con buon, anche se il senso dato oggi alla parola buono (vedi l’idea di buonismo) è assai distante dal significato del vangelo. Il termine usato è preceduto dall’articolo ò che ne enfatizza il senso, dà il significato di eccellenza a kalòs che più che buono offre il sentore di bello; le due sensazioni, buono e bello, si intersecano e si legano in una sola parola che esprime la qualità dell’opera di Dio (Gen 1,4). Perché è a questo che si riferisce la bontà e la bellezza del pastore, in lui traspare l’opera di Dio: le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me (Gv 10,25).
Come il pastore vero, Gesù nella sua esistenza terrena pone (tithêmi: mettere giù, esporre, posare) la sua vita (letteralmente la sua anima psychê) per gli uomini. La traduzione resa col verbo dare è piuttosto riduttiva e non esprime tutto quello che il quarto vangelo vuol comunicare.
Infatti il buon pastore, espone la sua vita per le pecore (v.11); a lui importa delle pecore e le difende con coraggio e amore. Il buon pastore dispone della propria vita (v.15) a favore delle pecore, la offre loro perché ognuno la faccia propria. Gesù come dal Padre riceve la vita così la dona, come è amato così ama dello stesso amore. Il buon pastore depone (v.17) la sua vita volontariamente. Il suo non è morire, ma portare a compimento la propria vita come dono totale d’amore, tutto «È compiuto!» (Gv 19,30). Nel verbo deporre si esprime l’estrema libertà del Signore nell’offrire la propria vita: nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Gesù possiede pienamente la vita e può deporla come depone le proprie vesti (Cfr. Gv 13,4), per poi riprenderla di nuovo perché è il Signore della vita e della morte. In Lui la vita si manifesta per quello che è, una circolazione d’amore, dono ricevuto e dato.
La vita che Gesù offre supera la morte, non perché è una vita per sempre, ma perché è la sua stessa vita, la sua vita divina. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici (Gv 15,13).
La contrapposizione col mercenario e il lupo ci dona lo spessore dell’amore di Cristo per noi. I rapporti tra gli uomini, come per il mercenario, sono guidati da interessi, opportunità, scelte oculate, convenienze, vantaggi, ma anche - come per il lupo - dalla fame, sopravvivenza, spirito di conservazione, dai bisogni primari. Il rapporto vitale del Signore con noi è soltanto frutto della totale libertà di un amore pieno che non ci lascia soli ma ci coinvolge: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34).
C’è una conoscenza reciproca tra il pastore e il gregge: il pastore conosce le pecore perché appartengono a lui, ed esse conoscono il pastore proprio perché sono sue. Non si può confondere, però, l’appartenenza con il possesso come qualsiasi cosa da utilizzare. Conoscere, nella Bibbia, esprime un rapporto profondo, coinvolgente, intimo, familiare; questo rapporto profondo e intimo è esenzialmente reciproco e chiede risposta da parte dei discepoli: e le mie pecore conoscono me.
Se ci rendiamo conto di esser amati, non possiamo che amare a nostra volta. Vale dunque la pena conoscere questo Gesù che ci ama in modo così straordinario, Paolo dice: Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo (Fil 3,8).
La reciprocità del conoscersi non chiude in un ambito ristretto come a volte viviamo la famiglia; il cuore del Signore è ampio e va oltre qualsiasi limite, accoglie ogni uomo, qualsiasi sia la sua provenienza, fosse anche quella religiosa - il termine recinto traduce la parola aulé che designa il vestibolo davanti al santuario del tempio.
Gesù, per mezzo della sua croce, mettendo la sua vita a disposizione di tutti, ha abbattuto ogni muro di separazione tra gli uomini (cfr Ef. 2,14-22) per fare di tutti un solo popolo di fratelli, sotto la guida del medesimo pastore. Proprio Cristo è il principio ultimo dell’unità: né il recinto di provenienza né il gregge di transumanza.
L’immagine che il quarto evangelo ci regala è quella di uomini e di popoli, di discepoli e di comunità, di credenti e di chiese che ascolteranno la sua voce realizzando in Lui una comunione così viva da riconoscersi in un unico gregge.
Il verbo, soltanto qui, è al futuro, ci mostra la realtà che è davanti a noi, il nostro impegno nella storia.
(da: www.insiemesullastessabarca)
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