XVIII PA – Gv 6.24-35

Tra il ricordo e l'attesa irrompe il presente di Dio
 

La moltiplicazione dei pani che Giovanni ci ha raccontato la scorsa domenica, si è scontrata con l’incomprensione della folla che si blocca di fronte al miracolo e vuole fare Re Gesù che, di fronte a questo, si ritira in disparte in solitudine dicendoci così che, per quanto poco ci possa sembrare, non ci serve altro che quello che lui è perché la nostra storia si apra alla speranza di un mondo nuovo. 

La buona notizia per tutti sono le 12 ceste avanzate, con le quali ci viene assicurato che chiunque ha fame può incontrarsi con questo Dio capace di sfamare coloro che chiedono il pane dell’amore, della misericordia, della compassione. 

Oggi Giovanni ci propone di fare un altro passo.

La folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafarnao alla ricerca di Gesù”. La folla aveva seguito Gesù – secondo Marco a piedi anticipandolo sull’altra riva – e ora, non vedendolo più, si sposta di nuovo andandolo a cercare. Quando pensiamo di aver “trovato” Dio, cioè di averlo “definito”, bloccato in una situazione che a noi andava bene perché ci aveva “sfamati”, cioè avevamo trovato risposta alle nostre esigenze, lui non sta più là: è un Dio che va sempre cercato, sempre ulteriore all’idea che di lui ci possiamo fare. Anche la Chiesa, se desidera essere autenticamente discepola “non sta più là” perché lo segue e, quindi, cambia pure lei. Questo suo spostarsi ci ricorda quello che ci diceva Marco due domeniche fa: la chiesa è una comunità “strada facendo”, sempre in cammino per seguire il suo Signore e gli uomini che lui ama.

L’incomprensione della folla, Giovanni ce la racconta con tre domande alle quali Gesù risponde a sua volta ponendo degli interrogativi, cercando così di aiutarli a compiere passi ulteriori per capire l’agire di Dio.

Alla prima di queste domande “Rabbi, quando dei venuto qua?” Gesù risponde: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati” e rilancia chiedendo di non fermarsi all’essersi saziati, ma di andare oltre, cercando di capire che cosa sottintende quel segno, proponendo loro una ricerca: “Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita eterna”.

In quel periodo si stava diffondendo l’idea di una vita oltre la morte ed era in corso il dibattito sulle condizioni per potervi accedere. La folla sa che, per averla, è necessario agire secondo le intenzioni di Dio (= la Legge mosaica) concretizzandole, ma intuisce che Gesù ha qualcosa di specifico in merito da annunciare ed allora la seconda domanda è allora obbligata: “Che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” e Gesù risponde: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato”. 

La folla chiede delle cose da fare (al plurale); Gesù ne indica una sola al singolare: credere in lui. Qui Giovanni inizia a sviluppare il tema della fede in Gesù che la liturgia, riprendendo l’itinerario che Marco ci aveva fatto fare in merito, ci accompagnerà ad approfondire e sviluppare nelle prossime settimane.

E va bene, può essere” pensa la folla, però: “Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compì? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo” ed è la terza ed ultima domanda che troviamo in questo brano dell’Evangelo. 

Ma come, verrebbe da chiedersi, si sono appena sfamati in 5.000 con 5 pani e due pesci: non è loro sufficiente? Hanno già dimenticato? In realtà, secondo la tradizione profetica, un segno per essere probante deve essere annunciato in precedenza dal suo autore. Infatti non chiedono a Gesù di operare immediatamente un segno, ma di dire quale segno egli compirà. Certamente vedono in lui un personaggio investito di una missione che aveva mostrato un potere eccezionale da loro interpretato secondo le proprie attese, senza che Gesù avesse detto una parola. Qui invece lo sente dichiarare che credere nella sua persona significa compiere tutta la Legge perché attraverso l’immagine della manna, i galilei si riferiscono alla Legge donata al Sinài, della quale Israele fa il suo nutrimento quotidiano. 

Gesù risponde: il pane che viene dal cielo non è quello che vi ha dato Mosé, ma quello che vi dà il Padre mio: “Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo”. Ancora una volta la folla chiede un’opera, ma Gesù presenta sé stesso come colui che discende dal cielo, il vero pane che dà la vita, non solo a Israele (come con la manna e la Legge) ma, allargando l’orizzonte, a tutto il mondo.

Come le altre due risposte, anche questa cerca di provocare in chi lo interroga un passo ulteriore per non fermarsi al segno, al fare delle opere o a chiedere a Dio stesso di compiere delle opere.

È importante notare come si modificano i tempi: tra il ricordo (della manna/Legge) e l’attesa (il nutrimento futuro promesso da Gesù), irrompe il presente di Dio, la realtà sostanziale dell’oggi.

Allora gli dissero: Signore, dacci sempre di questo pane”. È importante notare che qui i Galilei lo riconoscono come “Signore”

Gesù risponde: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete”. Nel dirci che è lui il pane di Dio disceso dal cielo che dà la vita al mondo, contemporaneamente ci invita a fare quello che Dio fa per il mondo, nella nostra realtà: dare la vita, porre le condizioni perché tutti possano vivere in pienezza, senza trattenere nulla per sé stessi, condividendo quello che ciascuno di noi è ed ha. Certi che questo si moltiplicherà.

 

(BiGio)

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