29 luglio: Memoria di S. Marta (Lc 10,38-42)

Le due esigenze del discepolato: 

l’ascolto (shimmua‘) e il servizio (shimmush). Non l’una senza l’altra.

Due sorelle compaiono in questo vangelo, ed entrambe accolgono Gesù, ciascuna a modo suo. Entrambe si può dire che diventano sue discepole, e due sono le esigenze del discepolato: l’ascolto (shimmua‘) e il servizio (shimmushdel Maestro. Non l’una senza l’altra. Quale delle due ha la precedenza? Probabilmente è una domanda oziosa. L’ebraismo, come è noto, insiste molto sul fare: “Faremo e ascolteremo”, dicono i figli d’Israele sul Sinai, quasi anteponendo la prassi all’ascolto (Es 24,7). È un’istanza operativa che si esprime in mille cose da fare, in una moltitudine di precetti da mettere in pratica. Non basta escogitare, bisogna praticare. Anche per Gesù la casa dell’ascolto si costruisce sulla roccia della prassi. San Paolo, in voluta polemica con questo atteggiamento che gli appare legalistico, da parte sua insiste molto sulla virtù della fede che giustifica indipendentemente dalle opere, ma sappiamo bene che una fede priva di opere è morta, si isterilisce (san Giacomo). “La cosa principale non è l’esegesi, ma la prassi”, insegnano i Rabbini nei Pirqè Avot, ma Rabbi ‘Aqiva, il più grande di loro, fa giustamente eccezione. Una volta – si legge nel Talmud (Qiddushin 40b) – nella casa di Nitza a Lod, ebbe luogo una discussione tra Rabbi Tarfon e Rabbi ‘Aqiva su quale fosse la cosa più importante, se lo studio (talmud) o la prassi (maaseh). Contro il parere di Tarfon, che difendeva il punto di vista tradizionale, prevalse l’opinione di ‘Aqiva: “È più grande lo studio”. Ma la motivazione era proprio questa: “Perché lo studio conduce alla prassi”. Anche il fare, senza una dovuta riflessione, si risolve in superficiale attivismo. Non è dunque possibile stabilire delle precedenze: ascolto e prassi sono necessari l’uno all’altra. Più che altro, è questione di sensibilità personale, di una maggiore o minore attitudine, o forse anche di una diversità di carismi nella comunità cristiana.

Non credo che Gesù, incontrando queste due donne, faccia una preferenza o voglia istituire una nuova gerarchia di carismi all’interno della chiesa. Non si tratta di anteporre una vita “contemplativa” a una vita “attiva”, come spesso si è inteso leggendo questo brano, sulla scorta di una distinzione filosofica e non biblica. Il carisma giovanneo non è più grande di quello petrino. Quello monastico, per esempio, non è superiore ai dovuti incarichi istituzionali, anzi è del tutto marginale rispetto ad essi. Gesù non stabilisce una priorità tra le due sorelle, e non contesta Marta. “Marta, Marta” è un’espressione di grande affetto e di riconoscenza verso colei che lo ha ospitato e che si dà un gran daffare per servirlo. A Marta (il cui nome significa “Signora”) Gesù non toglie nulla in quanto padrona di casa, non rovescia le gerarchie familiari. Ma Gesù difende Maria, probabilmente la sorella minore, dall’accusa di essere una fannullona o di perdere tempo. Difende chi è più debole, perché il molto fare, in certi casi, può degenerare in una qualche forma di prepotenza. L’unica cosa necessaria è l’amore per il Signore, sia che si ascolti la sua Parola, sia che lo si serva nei fratelli e nelle sorelle.

fratel Alberto

(Monaco di Bose)




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