Inviati a due a due non a fare discorsi, non per fare proselitismo, ma a condividere
Nei Vangeli delle ultime domeniche è venuta delineandosi il volto di una comunità che sta nel tempo tra la prima e la seconda venuta del Signore, in attesa di vedere il regno che è quel frutto che il seme, per quanto piccolo, porterà nel futuro sia che si che noi dormiamo o vegliamo, un frutto sproporzionato, come l’albero di senapa rispetto al suo minuscolo seme. In questo frattempo la comunità vive avendo due riferimenti: il Signore e gli uomini che lui ama, senza sconti sulla fatica del vivere come la barca che non è risparmiata dalla tempesta nel lago. Sapendo anche che l’azione di Dio, i “miracoli”, non sono prerogativa di chi o per chi crede in lui, ma che avvengono ovunque qualcuno sia disposto ad aprirsi alla possibilità di un mondo nuovo, di quella vita rinnovata che è il Regno (come nei due miracoli dell’Evangelo di domenica scorsa: l’emorroissa e la figlia di Giairo).
Di fronte a questo Dio che ci visita e ci assicura che questa storia è ormai la sua storia che porta già in sé già i semi del Regno, nel quale tutti credenti e non sono chiamati a vivere affrontando le tempeste ma, contemporaneamente, scoprendo e stupendosi dell’azione di Dio tra di loro, chiedendosi: “Chi sei o Signore?”. Non con l’incredulità dei nazareni, ma con la capacità di riconoscere la sua presenza tra di noi, “prendendolo così com’è” sulla nostra barca, senza voler predeterminare nulla, rimanendo aperti a riconoscere ogni sua iniziativa e non solo quelle che ci fanno comodo.
Giunti a questo punto, capaci di continuare a stupirci scoprendo l’azione di Dio in noi e nella storia, il Signore può inviarci “a due a due” ad annunciare, ad aiutare tutti a scoprile la sua presenza nella nostra vita, il Regno che sta crescendo, facendo quello che faceva lui nel percorrere “i villaggi d’intorno insegnando”, annunciando la lieta notizia del Regno già in mezzo a noi.
Gesù invia a due a due coloro che ha prima chiamato a sé: i discepoli non si scelgono fra di loro, non li unisce uno scopo, un programma pastorale, ma la chiamata ricevuta dall’amore gratuito del Signore. È lo stare con lui che legittima ogni testimonianza, ogni missione. “A due a due” anche perché, per essere valida, una testimonianza si deve basare almeno su due testimoni (Nm 35,30; Dt 17,6; 19,15).
Dalla relazione che hanno, abbiamo, con Gesù discende quella tra i discepoli: è il vivere quella fraternità fondata sulla comunione nella carità. È questa realtà che rende capaci di essere sempre pronti a dare ragione della speranza che chi incontrano “vede” in loro (1Pt 3,15), in noi, nel nostro agire, nel nostro essere. Questo “a due a due” è allora anche un antidoto all’individualismo, al protagonismo personale, all’attivismo che soffoca i doni e le capacità di coloro con i quali siamo chiamati a vivere assieme la fede.
I discepoli vanno, non sono chiamati ad essere dei sedentari, ma ad andare mentre ancora sono pieni di dubbi. Sono inviati non quando sono “preparati”, teologicamente ben ferrati, ma quando ancora non hanno capito bene chi sia quel Gesù che stanno seguendo e continuano a chiedersi chi sia, non vengono inviati a fare discorsi, ma ad immergersi nell’esperienza della vita delle persone per testimoniare quell’amore ricevuto che li unisce e a fare in modo che, chi incontrano, scoprano nella loro comunione il Signore presente in mezzo a loro.
L’equipaggiamento richiesto è la semplicità e l’essenzialità più assoluta: un vestito, sandali e bastone, l’abbigliamento richiesto per fare la prima Pasqua, quella dell’uscita dall’Egitto (Es 12,11)) verso la Terra promessa allora, verso il Regno oggi, appoggiandosi sul Signore che è il nostro bastone, il nostro “vincastro” (Ps 23,4). È lui l’unica cosa essenziale, la nostra ricchezza assieme agli uomini che lui ama.
L’Evangelo ci sottolinea che i discepoli non sono inviati a fare proselitismo chiamando a sé gli altri, ma ad andare verso gli altri. “A due a due” cioè l’opposto dell’azione di una sola figura carismatica che chiama attorno a sé potenziali adepti; presentandosi bisognosi di tutto e non l’autorità di chi vuole portare la verità con la forza e il potere di una grande struttura alle spalle. Non sono inviati a conquistare anime, a fare proseliti, a fondare filiali di un movimento ma ad essere segno del Dio che viene e, coloro che accolgono il loro annuncio non si mettono a seguirli, ma si “convertono” cioè cambiano vita: dall’egoismo all’altruismo, dalla chiusura all’apertura, dalla strumentalizzazione degli altri al loro servizio, delle vite più fragili, più bisognose.
Non devono cercare vite agiate, posizioni di favore, situazioni comode, ma condividere in tutto la vita di chi incontrano e li accolgono nella loro semplicità, nelle loro difficoltà, nelle loro gioie come nelle loro fatiche e nei loro pianti, vivendo con loro, lavorando con loro. Senza polemizzare con chi li contrasterà, andandosene in silenzio, scuotendo la polvere da sotto i piedi come gli ebrei erano tenuti a fare quando calpestavano suoli impuri, cioè abitati o frequentati da popolazioni o persone idolatriche come quelle della “Via del mare” o la Decapoli: “come testimonianza per loro”, non come condanna.
La Comunità è allora definita dal cammino dei discepoli del Signore, dall’essere “strada facendo”, fra la prima e la sua seconda venuta, dalla capacità di entrare nella casa degli uomini, rimanendovi fino a quando sarà utile a chi li ospita, facendosi carico della fatica che gli uomini nella loro vita conoscono, sapendo che oramai questa è diventata la storia di Dio.
(BiGio)
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