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E se smettessimo di parlare di “sacerdozio”?

Questo articolo attira la nostra attenzione su ciò che le parole comunicano, troppo spesso senza che ce ne rendiamo conto. La scelta delle parole che si usano: un bel margine di libertà per ciascuno...
L'articolo, scritto da Paul Tihon, s.j., membro da più di 45 anni della piccola comunità La paroisse libre de Bruxelles, è in sintonia con i temi della CCBF. La sua tesi: tutto il linguaggio che gira attorno a “sacerdozio” è carico di confusioni e malintesi. Partendo da queste confusioni, viene fatta una manipolazione per proteggere dei poteri che non hanno niente di evangelico. 
La proposta dell'autore è bandire dal nostro linguaggio i termini “sacerdote” e “sacerdotale” e invitare gli altri a fare la stessa cosa. 


Paul Tihon

in “baptises.fr” del 10 luglio 2021 (traduzione: www.finesettimana.org)

Già molto tempo fa gli esegeti e i teologi (all'epoca le teologhe erano ancora molto poche) hanno criticato l'uso del vocabolario “sacerdotale” per designare i ministeri nella Chiesa e in particolare i preti.
Bisogna dire che, su questo punto, il francese (come qualche altra lingua) non ci è d'aiuto a causa della sua povertà. Utilizza la stessa parola “prete” ("prêtre") per tradurre due termini che hanno un senso differente: presbyteros, che significa anziano, e hiereus, che significa “funzionario del sacro” (in latino, sacerdos, che bisognerebbe tradurre con “sacerdote”). Ma sono termini che appartengono a registri molto differenti. Hiereus, sacerdos, designa il membro del gruppo che, nella religione greca, romana o ebraica, è incaricato ufficialmente della gestione del culto, dei rapporti con il divino, insomma, del sacro. E tutta la categoria del sacro consiste nel distinguere dei luoghi, delle persone, dei tempi, mettendoli separati dal “profano”. Letteralmente, pro-fano, è ciò che è fuori del tempio, il fanum. Il profano, è il quotidiano, la vita di tutti i giorni...

Dobbiamo ricordarlo? Il Nuovo Testamento usa il linguaggio sacerdotale, tratto dal registro del sacro, solo in due casi: per Gesù, nostro unico “Gran sacerdote” (archiereus), e questo solo nella Lettera agli Ebrei, testo tipicamente giudeo-cristiano; e per il Popolo di Dio preso nel suo insieme, che è “un sacerdozio santo” (1 Pietro 2,5).

Invece, tutte le parole che designano delle funzioni e dei servizi nella Chiesa evitano sistematicamente il registro del sacro. Si parla di supervisori (episcopus, devenuto “vescovo”), di anziani (presbyteroi, che abbiamo fatto diventare “preti”), di piloti, di presidenti, di servitori (diaconi), ecc. Mai di “sacerdoti”.
Senza dubbio, il vocabolario sacrale, quello del Primo Testamento e quello delle religioni greca e romana, è entrato molto presto nei testi cristiani. Ma il fatto che sia una pratica antica non basta a legittimarla.
Si parlerà di inculturazione, ed è senza dubbio una parte della spiegazione. Si dirà che occorreva che la nuova religione si situasse in rapporto alle religioni presenti attorno, che avevano tutte un sacerdote, un corpo di specialisti deputati alla gestione del sacro. Qual era l'equivalente nei gruppi dei cristiani? Fin da Ignazio di Antiochia, all'inizio del II secolo, si dice: è il vescovo; e a lui si attribuiscono i titoli di “sacerdos” e di “pontefice”. Ma questa assimilazione è decisamente contestabile, anzi è pericolosa. Infatti, compromette a mio avviso un'affermazione centrale della nostra fede: il Vangelo instaura tra l'umanità e il Dio di Gesù Cristo una relazione di tale novità che esclude l'esistenza di una casta di mediatori specializzati nel trattamento del sacro. Tra Dio e l'umanità c'è un solo mediatore, Gesù Cristo. Su questo punto, i riformatori avevano ragione. Questo non impedisce affatto di affermare che la Chiesa presenta fin dalle origini una certa ripartizione dei ruoli, e la maggior parte degli esegeti fanno risalire fino a Gesù la designazione del gruppo dei Dodici, che Luca chiamerà “apostoli”. Ho ricordato prima alcuni dei titoli per designare le diverse funzioni. Ma nel Secondo Testamento, la ripartizione dei ruoli non compromette affatto l'uguaglianza fondamentale dei credenti: “Non fatevi chiamare 'maestri', perché voi avete un solo maestro e siete tutti fratelli” (Mt 23,8)

Questo non impedisce neppure di concepire ciò che chiamerei la struttura ministeriale della Chiesa come parte della sua “sacramentalità” - e quindi di parlare di un “sacramento dell'ordine” (la tradizione merita di essere rispettata!). Così si vede anche che un certo uso del vocabolario del sacro è inevitabile, anche in ambito cristiano, a condizione di comprenderlo bene: i “sacramenti” sono atti o situazioni che hanno una portata simbolica, che concorrono a manifestare qualche cosa della novità evangelica. Quando celebriamo l'eucaristia, tutta una serie di indizi distinguono l'assemblea da un semplice pasto fraterno o da una riunione di militanti. Ma questi indizi in realtà non hanno altra funzione se non quella di far percepire, in momenti privilegiati, che tutta l'esistenza è in realtà un “luogo di eucaristia”. Ogni “messa” è sempre “la messa sul mondo” di cui parlava Teilhard.

Ma la tendenza a separare il sacro dal profano è così radicata nello psichismo umano che rischia di nascondere la novità evangelica, reintroducendo dei mediatori, degli intermediari, tra Dio e il suo Popolo, tra Dio e ciascuno e ciascuna di noi. Tentazione spontanea forse, perché, se il velo del Tempio è squarciato, se ciascuno e ciascuna ha ormai accesso a Dio senza passare da “stati- tampone”, ci si trova esposti direttamente alla meraviglia, alla estraneità, alla prossimità incomprensibile di colui che è “più intimo a me di me stesso”... Ma allo stesso tempo ci si rende conto di quale altra tentazione sorga allora: quella del potere attribuito a quei “funzionari di Dio” - per parlare come il traduttore di Drewermann. Potere sui comportamenti, potere sulle coscienze. Potere tanto più sottile in quanto non si riconosce come tale e si designa come servizio. Compensazione del “sacrificio” fatto dal “sacerdote” nel “consacrare” la sua esistenza ad occuparsi al nostro posto del “sacro”...

Sta in questo, a mio avviso, tra l'altro, una delle ragioni più profonde dell'esclusione delle donne dall'ordinazione “sacerdotale”. Mi sono trovato più volte a discutere gli argomenti dei suoi difensori. Alcuni di tali argomenti non reggono – come il sofisma che consiste nel dire: “Se Gesù l'avesse voluto, lo avrebbe fatto”. L'argomento più difficile da confutare riguarda la simbolica sacramentale. ed è vero che più di un testo del Secondo Testamento usa la simbologia uomo-donna per chiarire degli aspetti della realtà cristica. Ad esempio nella lettera agli Efesini (5,25-27). Ma non ne consegue che si possa trasporre questa simbologia a situazioni che riguardano una concezione del sacro che io, da teologo, considero precristiana. E' difficile, in contesto cristiano, giustificare una simbologia che gioca sulla differenza dei sessi, mentre “in Cristo non c'è più uomo e donna” (Galati 3,28).

Sono quindi a favore della vigilanza linguistica su questo punto. Invece di “sacerdozio”, parliamo di “presbiterato”. Invece di ordinazione sacerdotale, diciamo “ordinazione a prete” o “al presbiterato. E così via. Forse è una piccola cosa. Ma credo sia importante per il cambiamento di mentalità.

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