Prospettive: Uno degli aspetti più preoccupanti è la dissociazione tra le persone avanti con l’età e la famiglia. I figli sono pochi e spesso lontani: quando si perde il coniuge, la vedovanza si traduce in una condizione di doloroso isolamento
di Roberto Volpi |
Il Covid-19 ha colpito in assoluta prevalenza le fasce di età più avanzate: tutta la mortalità in più si è verificata tra chi ha superato i 65 anni. Un dato che evidenzia una condizione generale di fragilità sulla quale bisogna intervenire.
La sproporzione: per gli ultraottantenni il tasso di mortalità da Covid è stato 400 volte superiore rispetto agli individui sotto i 50 anni
Per carità si eviti ogni parallelismo con le guerre, mondiali o napoleoniche che siano. E pure con le epidemie di peste dei secoli andati o di Spagnola del 1918. La pandemia di coronavirus 2020-2021 (sperando di non scavalcare l’anno in corso) è la prima davvero moderna — e vedremo in che senso. Tutto ciò che la precede appartiene alla storia. Questa per il momento è cronaca, attualità. Epidemiologia dell’oggi, le mille miglia lontana dai flagelli del passato.
Invece di far capire ciò che sta succedendo, quei parallelismi allontanano una piena comprensione. Certo, i morti di questa pandemia sono molti, più di quelli di tante guerre — ma si trattava, allora, particolare non da poco, di guerre in un mondo spopolato, rispetto a quello superpopolato di oggi. Ma le analogie si fermano qui, alla quantità. Per il resto non ci sono che difformità. C’è un dato, che svetta e fa la differenza. Siamo alle prese con una pandemia che colpisce tutta la popolazione, ma la cui letalità è quasi completamente circoscritta alla sola parte più anziana e fragile, gravata da malattie preesistenti. Le guerre aprivano vuoti nella popolazione giovanile e adulta, più attiva e intraprendente. Le stesse epidemie del passato ammazzavano in modo indifferenziato rispetto all’età, in alto come in basso. La pandemia da coronavirus, senz’altro in Italia, ma possiamo scommettere anche sull’Europa e l’America del Nord, sull’Occidente, i vuoti li apre esclusivamente nelle classi più avanzate d’età — le sole che, pur in popolazioni declinanti come quella italiana, hanno registrato aumenti quantitativi inarrestabili, determinando un crescente processo di invecchiamento.
Stando all’ultimo «Rapporto sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da Sars-CoV-2 in Italia» dell’Istituto superiore di sanità, dei deceduti positivi al coronavirus degli anni 2020 e 2021, a) l’età media è di 81 anni e b) solo l’1,1 per cento ha meno di 50 anni.
Ora, secondo le statistiche Istat dei deceduti nel 2019, ultimo anno non pandemico, l’età media al decesso degli italiani è stata di 81,4 anni, mentre degli oltre 634 mila morti di quell’anno 17.521, pari al 2,8 per cento, erano i morti con meno di 50 anni. Confrontando i dati dei morti positivi al coronavirus e quelli dei morti nel 2019 si riscontrano dunque un’età media al decesso pressoché uguale — 81 contro 81,4 anni — e un’incidenza dei morti di meno di 50 anni molto più bassa tra i morti positivi al coronavirus di quanto non lo sia tra i deceduti per tutte le cause.
Del resto, come sottolinea l’Istat: «Guardando alle classi di età, il contributo più rilevante all’eccesso dei decessi dell’anno 2020, rispetto alla media degli anni 2015-2019, è dovuto all’incremento delle morti della popolazione con 80 anni e più, che spiega il 76,3% dell’eccesso di mortalità complessivo. L’incremento della mortalità nella classe di età 65-79 anni spiega un altro 20% dell’eccesso di decessi». In pratica, tutta la mortalità in più dovuta al coronavirus non solo del 2020 ma anche del 2021 si verifica superati i 65 anni, e segnatamente superati gli 80 anni, mentre la mortalità da coronavirus sotto i 50 anni agisce in senso opposto, ovvero limitando l’eccesso di mortalità da Covid-19 anziché aggravandolo. Ecco la formidabile modernità dell’attuale pandemia: risparmia in basso, dove colpisce senza riuscire ad affondare il colpo, esagera in alto, dove i colpi risultano ben altrimenti letali.
Al 30 aprile di quest’anno i morti positivi al coronavirus hanno raggiunto dall’inizio dell’epidemia quota 120.628 (ora siamo a circa 128 mila), oltre 73 mila dei quali di 80 e più anni e circa 1.300 di meno di 50 anni. La mortalità per Covid nella popolazione è stata di 30 morti ogni 1.000 casi Covid. Si tratta di una stima per eccesso perché, specialmente nella prima ondata della pandemia, i tamponi eseguiti giornalmente erano molto pochi, cosicché buona parte dei casi di positività sfuggiva ai conteggi. Ma non apparirà pleonastico sottolineare, fatta questa precisazione, che nella classe d’età di meno di 50 anni ogni 1.000 casi Covid si sono avuti 0,6 morti (ovvero poco più di un morto ogni duemila casi Covid) mentre nella classe d’età di 80 anni e più i morti sono stati oltre 200 ogni 1.000 casi Covid. Cifre inconfrontabili, che ci dicono che la mortalità dovuta al Covid a 80 e più anni è stata all’incirca 400 volte più grande (avete letto bene: non 4 o 40, 400) dell’analoga mortalità sotto i 50 anni. E qui c’è, indubbiamente, la modernità della pandemia di Covid; ma c’è anche, e sarà bene cominciare a parlarne con scrupolo, la precarietà non solo di salute, ma esistenziale delle età estreme della vita in Italia.
La precarietà di salute è, al di là di ogni evidenza oggettiva, avvertita soggettivamente dalla popolazione anziana. Nell’ultima «Indagine multiscopo sulle famiglie: aspetti della vita quotidiana» l’Istat registra che solo il 27,5 per cento di quanti hanno almeno 75 anni dichiara di sentirsi in buona salute, mentre 2 persone su 3 di questa età lamentano almeno due patologie croniche. Dati perfettamente in linea con le malattie croniche preesistenti nei morti positivi al coronavirus, queste invece più oggettivamente diagnosticate, che raggiungono una media stratosferica di 3,6.
La precarietà o malessere esistenziale degli anziani oggi in Italia deriva invece da uno snodo decisivo: è stato toccato in questi anni il punto di massima dissociazione, o distanza che dir si voglia, tra gli anziani da un lato e la famiglia dall’altro. Anziani, più generalmente ancora che non vecchi. Nel 2019 sono infatti arrivate alla cifra record di 4,1 milioni, sempre secondo l’«Indagine multiscopo sulle famiglie» dell’Istat, le persone sole di 65 e più anni. Di queste, quasi 2,9 milioni sono vedovi o vedove. Poiché gli individui vedovi di 65 e più anni sono 3,84 milioni, se ne deduce che almeno tre di essi su quattro (in grande maggioranza donne) di oltre 65 anni vivono da soli. Ora, quando un anziano perde il coniuge e non ha nessuno accanto, si ritrova non già single, com’è chi ha ancora la vita davanti e può scegliere, bensì ben più realisticamente solo.
Intendiamoci, questo processo di dissociazione, di lontananza non avviene per meschini calcoli familistici di esclusione degli anziani dalle famiglie. Questi calcoli — e ce ne saranno pure, non siamo nel paradiso terrestre — incidono poco. Incide tutt’altro. Il miglioramento degli standard di reddito pro-capite e familiare, congiuntamente alla contrazione delle nascite iniziata già nella seconda metà degli anni Settanta, ha determinato un numero sempre maggiore di coppie di età avanzata economicamente più o meno autonome senza figli conviventi. Quando uno dei coniugi (molto più spesso l’uomo) di queste coppie muore, l’altro resta solo senza la possibilità di essere reinserito in una diversa realtà familiare o per mancanza di figli o perché i figli (molto frequentemente soltanto uno) sono lontani o non hanno a loro volta realtà familiari consolidate o perché si sono create modalità di vita oltremodo dissimili tra genitori e figli o ancora perché — c’è anche questo — la capacità di condurre una vita autonoma è diventata un valore anche per quegli anziani che pure, quando la vita si allunga di molto, finiscono per subirla.
Tutto questo, in assenza molto spesso di vere alternative a una vita di solitudine, acuisce le condizioni di fragilità psico-fisica delle persone anziane sole e crea in esse una percezione del domani che declina velocemente. Non è solo eziologia del coronavirus, dunque, se l’incremento dei morti dovuto alla pandemia (marzo 2020 - aprile 2021) è imputabile quasi al gran completo ai morti di 65 e più anni e per oltre il 76 per cento ai morti di 80 e più anni.
Si è tanto insistito, quasi sempre giustamente, sul ruolo positivo della famiglia italiana nella pandemia. Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia, messa in rilievo da un quadro statistico assolutamente univoco. Famiglia e anziani sono realtà sempre più separate tra di loro, in società come la nostra: quando si invecchia, quando si arriva a età molto avanzate, si resta quasi sempre soli. Esposti, molto esposti alle vicissitudini. Se poi la vicissitudine è un virus come il Sars-Cov-2 le cose, e lo si è visto, possono precipitare.
Questo è il grande problema, sul filo dell’irrisolvibilità, che la pandemia ha sottolineato con una forza al confine con la brutalità. Ma allora occorre sforzarci di misurare il perimetro del problema. La famiglia non cambierà. Dal punto di vista del numero di componenti, che sta scivolando sotto la media di 2,3, non è da attendersi alcuna ripresa, se non impercettibile. Quanto alle proporzioni delle varie tipologie nell’universo delle famiglie, quelle unipersonali rappresenteranno in futuro, già lo sono di un soffio, la tipologia più frequente, quelle formate da un solo genitore con figli sono destinate a diventare, per l’instabilità crescente dei legami di coppia, sempre più numerose, mentre le coppie con figli e le coppie senza figli non terranno le posizioni e proprio le coppie con figli, nell’asfittica demografia italiana, potrebbero accusare ulteriori cedimenti. Cosicché le tipologie di famiglia che hanno maggiore intensità e valore di famiglia presumibilmente si indeboliranno ancora, anche se non al ritmo degli ultimi decenni.
Non solo, ma gli stili di vita si sono consolidati e un loro arretramento è del tutto, oltreché improbabile, improponibile. È pacifico che i figli abbiano vite separate dai genitori e che questi ultimi possano decidere come affrontare il futuro al pari dei figli e che intendano in ciò essere il più possibile liberi dal loro condizionamento. D’altro canto, la speranza di vita è destinata a superare i danni della pandemia e a riprendere a salire, e con essa a salire ancora saranno gli stati di vedovanza e quelli di solitudine di molte vite quando sono nell’ultimo tratto.
I legami affettivi e sentimentali genitori-figli sicuramente resteranno: natura, civiltà, storia non sono acqua fresca. Lo testimonia del resto il fatto che quando possono i figli si stabiliscono nelle vicinanze dei genitori. Ma molti anziani di figli non ne avranno neppure o potranno contare su di uno solo, magari finito chissà dove. Così sarà sempre più la vita materiale, la quotidianità a separare i genitori anziani dai figli, e più in generale gli anziani, un numero sempre più grande dei quali mai sposati, dai segmenti più attivi e vitali della popolazione.
Il perimetro del problema definisce un’area sopra la quale nelle carte geografiche di un tempo si trovava scritto Hic sunt leones: una zona inesplorata, ma densa di pericoli, da cui rimanere alla larga. Hic salta, allora. Proviamo a vedere come saltare l’ostacolo, cosa sappiamo fare, come affrontare il problema irrisolvibile. Il dibattito è apertissimo. Hic sunt leones non è definizione minimamente tollerabile.
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