Estate, ferie, riposo ... ma cosa significa ri-posare?

 


di Alessandro D'Avenia

Quando arriva l’estate tutti bramiamo il riposo come un corridore al traguardo. Lavoriamo per riposare e riposiamo per tornare al lavoro: questa ruota da criceto non mi ha mai convinto.

È possibile spezzare il circolo vizioso della odierna società della stanchezza? E riuscire a riposare sempre, anche quando lavoriamo?


«Se vuoi trovare il riposo in questo mondo e nell’altro, in ogni occasione poni a te stesso questa domanda: Chi sono io?. E non giudicare nessuno». Si tratta della risposta di un vecchio saggio, contenuta nella raccolta dei «Detti e fatti dei padri del deserto», uomini che nei secoli dal III al VI secolo d.C. si allontanavano dalla città in cerca di pace e di Dio: non era il deserto a salvarli ma qualcosa che scoprivano grazie alla nudità del deserto. La risposta infatti indica l’assenza di riposo non tanto nelle molte cose da fare ma nell’ignoranza di sé, che porta al desiderio/disprezzo delle vite altrui.


Si riposa non cessando di fare, ma cessando di fuggire da sé e smettendo di proiettarsi in vite che non sono la nostra, infatti «ri-posare» significa proprio «mettere di nuovo»: l’io dentro sé stesso. E così mi sono chiesto: Chi sono io? Un uomo in cerca di una felicità piena che mi pare impossibile, perché il desiderio umano è infinito e niente offre l’infinito, sia che lavoriamo sia che ci troviamo in vacanza. Si può risolvere questa condizione o dobbiamo rinunciare alla piena felicità e accontentarci di un riposo che è solo la cessazione delle attività?


Nell’agosto 1949, Jack Kerouac, autore del bello e maledetto «Sulla strada», affrontava così il problema nel suo Diario di viaggio: «La vita non è abbastanza. Allora cosa voglio? Voglio una decisione per l’eternità, qualcosa da scegliere e da cui non mi allontanerò mai. E qual è questa decisione? Un qualche tipo di febbre della comprensione, un’illuminazione, un amore che andrà oltre, trascenderà questa vita, una visione seria, finale e immutabile dell’universo. Questo è ciò che intendo quando dico che voglio degli Occhi. Perché dovrei volere tutto ciò? Perché qui sulla terra non c’è abbastanza da desiderare, o meglio, qui non esiste una singola cosa che io voglia. Perché non mi basta? Perché non mi illumina l’anima, non mi riempie il cervello di eccitazione e non mi fa piangere di felicità».

Lo scrittore americano descrive alla perfezione l’impossibile «riposo» degli uomini: sulla terra non c’è «abbastanza da desiderare» e allora ci vuole una «decisione per l’eternità».

Agostino avrebbe detto che il cuore dell’uomo è inquieto finché non «riposa» in Dio. Per riposare non basta quindi ritirarsi dall’ordinaria fatica, ma bisogna indirizzare la scelta verso l’infinito. Ma sulla terra nulla lo è o non abbiamo Occhi per vederlo…

La proposta del saggio citata all’inizio indica una via: per trovare riposo dobbiamo chiederci «chi sono io?».


Io sono la storia di tutti gli uomini che mi hanno preceduto per generarmi e quella degli elementi dell’universo che mi costituiscono, ma sono molto di più, infatti la vita ricevuta si mostra in me in un modo che non si è mai dato né mai più si darà: solo io posso essere e fare ciò che posso essere e fare io. Questa unicità, proprio il mio essere così «ri-finito», non è prigione ma luogo del «riposo», perché apre al giusto protagonismo esistenziale: riposo solo se sono e faccio ciò che solo io posso essere e fare.


Come? Due mi sembrano i modi: creare, secondo le proprie attitudini (realizzare la propria vocazione umana e professionale), e amare, coltivando le relazioni fondamentali (Dio, gli altri, il mondo). Se vogliamo riposare, non solo in vacanza ma ogni giorno, dovremo scegliere di coltivare queste due «regioni» e «ragioni» (il «mio» mondo da salvare) dove il finito si apre all’infinito: sono nato unico ma lo divento realmente solo se creo e amo dove e come solo io posso fare, e questo lavoro non ha mai «fine».

Tendo all’infinito senza sfinirmi, come accade invece se inseguo il falso infinito, somma di piccoli finiti (materiali, come don Giovanni, o spirituali, come Faust) mai sufficienti alla felicità, infatti quando raggiungo qualcosa, subito dopo, ne desidero un’altra. E così mi affanno invano e il riposo non arriva mai, perché l’infinito non si dà per «estensione» (accumulo) ma per «intensità» (profondità), creativa e relazionale: più so chi sono e lo divento, nella mia unicità, più mi rinnovo.

(in Corsera del 28 giugno 2021) 


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