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Non un “re”, ma una regalità da riconoscere

I titoli in genere portano a creare distanza: Prof, Dott, Ing, Mons, Ecc, On, … Re: per questo si scrivono con l’iniziale maiuscola.

Ma come è possibile dare un “titolo” che generi “distanza” a Gesù, lui che è invece è venuto al mondo per essere in tutto simile a noi? 



Lo diciamo “Re” guardandolo appeso sull’albero della croce ma il Deuteronomio (21,23) ci dice che, chi è messo a morte così, è una maledizione di Dio che contamina tutto il paese. Siamo così abituati a guardare quelle braccia aperte che la cosa non ci fa più scandalo, mentre quella maledizione dovrebbe bruciare dentro di noi e interrogare anche oggi, saggiare la nostra fede.

Per tre volte (e il numero tre significa la pienezza della perfezione) nell’Evangelo di oggi ricorre l’invito fatto a Gesù nella derisione e nell’insulto di “salvare” se stesso scendendo dalla croce.  Tre volte è qui tentato, come tre volte lo è stato dopo il Battesimo nel deserto dal diavolo che, quella volta ci racconta sempre Luca (4,13), si era allontanato da lui fino al momento fissato e, come allora, anche qui viene sconfitto. Gesù non salva se stesso, non scende dalla croce. Ma perché non lo fa? Perché sta lì, mentre il popolo lo sta a vedere, crocefisso tra due malfattori, due ladroni, due peccatori? È in mezzo a loro: lo si può confondere come uno di loro così come era accaduto quando era mescolato in fila al Giordano per ricevere un battesimo di conversione dal Battista. 

Gesù sta lì perché è venuto per portare la signoria Dio, cioè il suo amore, in tutto il creato, ovunque, anche in quell’unico luogo dove secondo la Scrittura certamente non poteva esserci: nei crocefissi. Anche qui Gesù porta la misericordia di Dio, cioè pone il cuore di Dio, il suo amore tra coloro che si pensava ne fossero stati da Lui stesso privati per sempre. È questo suo amore che lo fa rimanere lì, appeso al legno che ci salva, non le sue piaghe sanguinanti in se stesse.

L’Evangelo di oggi si chiude con una parola che Luca usa una sola volta: “Paradiso”. È un termine persiano che significa “il giardino” e con questo desidera richiamarci il giardino dell’Eden dal quale l’uomo viene cacciato perché peccatore. Gesù fa l’operazione inversa, vi reintroduce l’uomo peccatore includendolo grazie alla misericordia di Dio: l’uomo è più grande del suo peccato per quanto abominevole possa essere stato.

Con questa Domenica si compie (non termina) un altro anno liturgico durante il quale è stato proclamato e noi abbiamo ascoltato, quello che l’Evangelista Luca ha voluto trasmetterci di Gesù e della sua missione, portandoci a riconoscere la sua regalità (non il suo essere “re” come uno dei 12 che regnano oggi in Europa) che oggi siamo chiamati a testimoniare, cioè il suo amore diffuso per sempre su tutta la realtà e a dire il nostro “amen”, il nostro “si, è proprio cosi” e noi “noi siamo tue ossa e tua carne” (1^ lettura). Questo ci è possibile se riusciamo a “stare” davanti al crocefisso non solo guardandolo, ma contemplando quell’amore per noi che lo ha fatto rimanere inchiodato a quell’albero che era una maledizione capace di contaminare tutto e tutti: ora non più.

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