Domenica XXXIII PA – Lc 21,5-19

Alle nostre spalle il passato, protesi verso il futuro ci dimentichiamo di vivere il presente mentre siamo chiamati a non temere, a non essere profeti di sventura ma ad abitare con coerenza il quotidiano della vita nella quale Dio, che ce la dà e ne è l’autore, fa di noi quella “lieta notizia”, quell’Evangelo tra e per tutti gli uomini, per l’intero creato.


Siamo giunti all’ultima domenica del cammino di questo anno liturgico, domenica prossima con la Festa di Cristo Re si chiude e si rilancia in avanti meditando l’evento fondante la nostra fede.

Gli ultimi Evangeli ci hanno fatto quasi un riassunto del cammino propostoci dalla liturgia attraverso l’Evangelo di Luca per comprendere la figura di Gesù, le esigenze poste dalla sua sequela, la misericordia della quale siamo ricoperti dal Padre e che siamo chiamati a “sperperare”. La domenica scorsa la nostra attenzione è stata richiamata su che cosa significa essere “risorti” e Gesù ha usato i verbi al tempo presente per farci comprendere che chi è in relazione con lui, vive già da risorto. La risurrezione non è un qualcosa che sarà solo dopo il nostro morte, siamo chiamati a viverla già da ora, nel nostro oggi, perché lui è la vita eterna e, in questa, siamo chiamati a vivere.

 

Il testo della pericope di oggi sembra proporci una sintesi delle cronache del nostro presente (v.9): guerre e distruzioni (in Ucraina e molti altri paesi del mondo), terremoti (continui più o meno forti, più o meno disastrosi), siccità e carestie (in Africa e si prospettano anche da noi), pestilenze (il Covid), eventi traumatici nella natura (i cambiamenti climatici, le alluvioni e i conseguenti estremi eventi atmosferici), sollevazioni popolari (in Iran, Perù …). Senza contare i fenomeni migratori dei disperati con i morti nel Mediterraneo, gli incidenti sul lavoro con i loro morti e quelli sulle strade, i femminicidi, gli accoltellamenti nella nostra città (a inizio novembre uno ogni due giorni). I numeri sono agghiaccianti; non si riesce o non si dovrebbe rimanere indifferenti perché sono volti, storie, situazioni. Per chi vi è direttamente coinvolto sono motivo di sofferenza, di sconforto, a tutti dovrebbe sollecitare almeno una riflessione: cosa fare? come agire per rispondere e non lasciarsi travolgere dagli eventi?

Gesù fa questo quadro apocalittico che appartiene al nostro presente e tutti i periodi storici ne hanno avuto uno, per dirci che tutto passa, anche degli splendidi tempi che costruiamo a Dio non rimarrà su pietra su pietra.

Per quello che vediamo accadere oggi, con i suoi discepoli anche noi ci interroghiamo su quando sarà la fine, perché il nostro “problema” è il cercare di prevedere quello che ci accadrà. Il passato vissuto, interpretato o subito è alle nostre spalle, è il futuro che ci preoccupa: finirà la guerra? le bollette, l’energia elettrica, il gas e i carburanti torneranno ad avere costi accessibili? i nostri figli e nipoti che futuro avranno? che mondo gli lasceremo?

Se ci facciamo caso è il presente che ci manca, che facciamo fatica a vivere, ma Gesù in questi versetti parla al presente indicativo invitandoci a non lasciarci ingannare dai profeti di sventura (v.8) come li ha chiamati Giovanni XXIII. La settimana scorsa Gesù ha di nuovo affermato che Dio è il Signore dei viventi e, oggi, ci chiede di vivere il presente nel quale siamo chiamati a incontrarlo ed a rapportarci con lui. Dio non parla al nostro passato o al nostro futuro, ma al nostro presente quotidiano: lui è l’eterno presente.

Ecco allora la risposta da dare a quell’insieme di eventi disastrosi, non il rinchiuderci in rifugi più o meno sicuri, più o meno dorati: quante volte nell’Evangelo di Luca ci ha avvisato lungo quest’anno che questo non serve, che non si deve sperare e “aspettar che passi a nottata”. Quello che ci è chiesto è di vivere le situazioni presenti tirandoci su le maniche e fare anche solo quella piccola goccia a noi possibile, perché assieme a tutte le altre diventano significative della Sua presenza, diventano “sacramento” cioè segno efficace dell’amore del Padre per gli uomini: curare, accogliere, vestire, visitare, consolare, operare per la sicurezza dei posti di lavoro, prendersi carico delle cause dei disastri naturali e insistere perché si cambi direzione, educare all’affettività, all’amore, alla pace contro ogni tipo di violenza.

Certo, a causa di questo, del fare come lui ha vissuto e fatto, saremo perseguitati (v. 12) ma, in questo, Gesù ci sollecita a pensare che quando siamo alla sua sequela, e questo è il senso della nostra vita, significa che noi siamo in lui e lui è in noi che ci consola, asciuga le nostre lacrime e ci incoraggia a rialzarsi e a rimetterci in cammino. Questo significa ed è il rendergli testimonianza.

L’importante è l’essere “perseveranti” (v.19) che significa essere e rimanere costanti perché sappiamo in chi abbiamo posto la nostra fiducia e nulla potrà privarci del suo amore (Rm 8,35) sotto il quale siamo. Questo ci permette di vivere il presente “dimenticando ciò che ci sta alle spalle e protesi verso ciò che ci sta difronte” (Fil 3,14-15), certi che ci è vicino, ci sostiene e che per questo “nessun capello del nostro capo andrà perduto” (v.18), tutte le azioni compiute nella e alla sua sequela saranno valorizzate. È questo che salva la nostra vita e ci fa vivere da risorti già da oggi.

Lagrange, un importante biblista domenicano francese, traduce alla lettera “ne prenderete possesso a poco a poco” che fa della perseveranza nelle difficoltà del quotidiano, un abitare sempre più nella vita nella quale Dio, che ce la dà e ne è l’autore, fa di noi quella “lieta notizia”, quell’Evangelo tra e per tutti gli uomini, per l’intero creato.

 

(BiGio)

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