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Domenica XXXII – Lc 20,27-38

La risurrezione, un premio, una compensazione, una semplice materiale risposta alle difficoltà della vita? è solo questo?



Questa è la penultima domenica dell’Anno Liturgico che si chiuderà con la Festa di Cristo Re e abbiamo appena celebrato la festa di tutti i Santi. Il giorno seguente, nel ricordo dei defunti, abbiamo riaffermato la speranza nella risurrezione, tema che la liturgia ripropone oggi alla nostra riflessione con forza attraverso la domanda posta a Gesù dai Sadducei, l’aristocrazia sacerdotale del Tempio che non ci credeva, perché non testimoniata nel Pentateuco. Non l’accoglievano inoltre per gli aspetti materialistici con i quali veniva per lo più prospettata e che proiettavano in cielo quanto si vive sulla terra, senza i limiti che la caducità della creazione comporta. 

La prospettiva della risurrezione era stata elaborata come risposta al fatto che, facilmente, i buoni periscono e i malvagi vivono a lungo; ecco allora la soluzione formulata come una compensazione nel dopo la morte, di quello che si vive sulla terra.

Questa idea affonda le sue radici nel pensiero profetico e sapienziale, per esempio in Isaia (26,19) e nella nota convinzione che Giobbe grida con tutta la sua forza (19,25-27) ma, questi testi non appartengono alla Torah e, quindi, per i Sadducei non potevano essere normativi.

Nella domanda posta a Gesù, traspare con evidenza molta malignità e desiderio di ridicolizzare coloro che ci credevano, in quanto viene presentata l’iperbole di un ipotetico caso giuridico che avrebbe potuto presentarsi con il precetto del Levirato (Dt 25,5-10 – “levirato” viene dal latino “levir” termine che identifica il fratello del marito, cioè il cognato). Non c’era affatto la necessità di pensare a 7 fratelli e una sola donna moglie del primo e, in seguito alla morte progressiva di ciascun fratello, cercare di capire a quale sarebbe stata sposata nella risurrezione. Il problema sarebbe stato uguale anche con soli due fratelli. 

Pure gli altri due sinottici, Marco e Matteo, presentano la medesima domanda e, nei loro Evangeli, Gesù risponde in modo aggressivo. In Luca invece i toni sono pacati: non accusa ma pazientemente spiega e, usando parole semplici, corregge innanzitutto l’idea di risurrezione che traspariva dalla domanda postagli dai Sadducei, affermando che “ora siamo figli di questo mondo …mentre  coloro che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti … sono simili agli angeli”.

Con questo Gesù non vuole affatto prefigurare in nessun modo una realtà celibataria nel regno di Dio, ma pone l’accento sulla diversità delle due situazioni ed è interessante notare il perché i risorti non prenderanno più né moglie ne marito: “perché non possono più morire”. 

Vale a dire che il matrimonio ha a che fare con la condizione mortale dell’uomo che ha la necessità di procreare sia per darsi un futuro e perpetuare la vita sia, soprattutto, per gridare alla morte che la vita è più forte. Quando si risorgerà, non sarà un tornare a questa vita che conosciamo, ma si godrà pienamente della medesima vita di Dio, non si avrà più bisogno di contestare la morte, semplicemente perché questa in Dio non esiste e l’avrà eliminata anche in noi (Is 25,8).

Con il dire questo Gesù accompagna i Sadducei a riflettere su quanto traspare nella Genesi (quindi all’interno del Pentateuco, delle Scritture di Mosè): Adamo chiamò la donna Eva, che significa “madre dei viventi”, solo dopo che furono cacciati dal Paradiso per aver mangiato dell’albero della vita e solo allora “conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino” (“conoscere” nella Scrittura sta a dire un rapporto sponsale). Quindi nel Regno di Dio, il Paradiso che accoglie e accoglierà tutti i risorti, non essendoci più questa necessità causata dalla nostra caducità mortale, non c’è e non ci sarà più alcuna necessità di rapporti sponsali per affermare la vita, perché la si sta e la si starà già vivendo in pienezza.

 

Gesù però non si ferma qui e prosegue nella sua argomentazione diversificandosi dai farisei; credevano pure loro alla risurrezione che facevano derivare direttamente dalla fedeltà che Dio ha alla sua Parola: non ha forse promesso ai Patriarchi di dare loro la terra di Canaan (Es 6,14)? È evidente che i loro discendenti l’hanno ricevuta; è quindi necessario che i Patriarchi risorgano per poterla ricevere anche loro.

Gesù invece sottolinea che il Padre è un Dio di e in relazione, perciò Abramo, Isacco e Giacobbe non possono che essere già vivi, nonostante siano morti e siano stati sepolti come è attestato dalla Scrittura. È la relazione di Dio con l’uomo che oltrepassa la morte. La risurrezione allora esiste non in ragione di quanto gli uomini hanno vissuto o fatto, ma nella passione di amore di Dio, la stessa passione che anima Gesù venuto a “cercare ciò che era perduto(Lc 19,10).  Se ci lasciamo trovare, entriamo in relazione intima con Lui e, di fatto, viviamo già da risorti. Oggi. 

Oggi perché lui ci ha detto: "Io sono la risurrezione" (Gv 11,25) perciò se riusciamo a vivere come lui ci ha indicato fino a poter dire con Paolo "non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me" (Gal 2,20), in lui vivremo già da risorti. Siamo coscienti che non ci è facile vivere imitandolo senza errori; perciò per noi, nella nostra caducità, ci saranno solo delle anticipazioni, ma sono reali quanto quello che sarà alla fine del tempo, del nostro tempo e al compimento dei tempi.

(BiGio)

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