La pubblicazione integrale delle tre relazioni che hanno strutturato l’incontro tra vescovi tedeschi e Curia romana, sull’Osservatore Romano, è la preziosa testimonianza di un desiderio di comunione e di unità che merita di essere sottolineato e valorizzato. Che il confronto abbia assunto non la consueta forma burocratica e chiusa, ma dimensione pubblica e condivisa, è un fatto di rilievo: già è un frutto «procedurale» del Cammino sinodale e del Sinodo universale. Ovviamente questo non nasconde, ma manifesta ancora meglio i punti di disaccordo, che però vanno inseriti in questo comune desiderio di unità.
Vorrei fare un’analisi solo dei punti su cui le obiezioni della Curia sentono difficoltà, esaminando con una certa cura quale tipo di argomentazione viene proposto all’attenzione della controparte. Questo può essere utile per contribuire a sciogliere alcuni nodi delle questioni e a mostrare distanze e vicinanze forse inattese.
Inizio esaminando le obiezioni sollevate dal Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, card. Ladaria.
Le difficoltà di Ladaria
Ragionevole mi pare la domanda di un «genere letterario» meno ricco e articolato. La grande produzione che il Cammino Sinodale tedesco ha generato, ricordata nel dettaglio dalla relazione Bätzing, può sollevare problemi interpretativi, nel riferimento a fonti e a linguaggi non del tutto trasparenti per un lettore esterno.
Su questo può essere prezioso uno «sguardo romano» che chiede spiegazioni e riferimenti. Non posso dimenticare, tuttavia, che un’obiezione al Concilio Vaticano II è suonata, a suo tempo, esattamente nello stesso modo. Siccome i documenti del Vaticano II non parlavano il linguaggio della tradizione magisteriale classica, sembravano «poco rigorosi», mentre costituivano piuttosto, già allora, un “evento linguistico” proprio per questo cambio sostanziale di registro.
Qualcosa di simile ha affermato il card. Schönborn anche a proposito di Amoris laetitia, che cambiava il modo di parlare sul matrimonio e sulla famiglia, rispetto agli stili affermati durante il XIX e XX secolo. D’altra parte, ripeto, mi pare ragionevole il richiamo a una «sintesi» il più possibile chiara nel modo di usare le fonti, nei riferimenti alla tradizione, e nelle implicazioni che le scienze umane apportano alla coscienza ecclesiale e alla comprensione teologica.
Più complessa è la seconda preoccupazione, che mette a tema la correlazione tra struttura della Chiesa ed esperienza degli abusi. La difesa della competenza episcopale e della Chiesa locale, come tale, non mi pare che implichi il ridimensionamento delle distorsioni che il potere, il ministero, la sessualità e il ruolo della donna comportano e su cui occorre una lucida capacità di riforma.
La riduzione del mistero della Chiesa a «sistema di potere», che nessuno può permettersi, non è però evitata dalla salvaguardia di un’assoluta riserva episcopale, proprio perché una gran parte dei problemi discendono precisamente dall’assolutezza di questa riserva gerarchica. Che tutto il potere sia solo nel papa e nei vescovi è l’immagine di «piramide non capovolta» che fa problema.
Qui tra Vangelo e forma culturale vi è una correlazione indissolubile. Vi è in gioco una comprensione dell’esercizio dell’autorità, che non può trovare soluzione in una forma monarchica, che sola garantirebbe il mistero della Chiesa e la Chiesa come mistero.
Il terzo punto, la sessualità, ....
L'intera riflessione di Andrea Grillo a questo link:
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