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1° Novembre – Festa di tutti i Santi – Mt 5,1-12

All’inizio del “discorso della montagna” di Gesù, si trova il brano delle Beatitudini proclamato oggi in questa festa. È il primo dei 5 contenuti nell’Evangelo di Matteo ma, questo, non è un qualsiasi discorso: ha una rilevanza unica, perché offre una visione programmatica della sua opera.


L’inizio è solenne e sei verbi descrivono, quasi come ad un rallenty cinematografico, quanto sta avvenendo: “vedendo le folle, salì sul monte, si pose a sedere, si avvicinarono i discepoli, si mise a parlare dicendo…”

Ci sono certamente richiami a quanto avvenne sul Sinài che tradizionalmente ha fatto identificare Gesù come il nuovo Mosè. Però, se si fa attenzione al testo senza precomprensioni, ad essere come Mosè sono piuttosto i discepoli che salgono sul monte per ricevere l’insegnamento di Gesù, mentre le folle che rimangono più distanti, rappresentano Israele.

Matteo non vuole presentare l’insegnamento di Gesù come una legge “nuova”, piuttosto ci propone la sua figura come l’interprete che riporta la Torah al suo senso pieno, svelandone caratteristiche originali rispetto all’interpretazione tradizionale giudaica. 

Per questo evangelista Gesù non è venuto ad abolire la Torah, non ci propone una “dottrina nuova” e non stabilisce nemmeno una “nuova alleanza”.

 

Le Beatitudini sono aperte e chiuse da due che non riguardano il futuro ma sono proclamate da Gesù come già presenti: “Beati i poveri in spirito … beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”. È un esplicito invito a guardare dentro e oltre la povertà e la persecuzione che, agli occhi del mondo, sono realtà solo negative. In queste però c’è anche la possibilità di sperimentare nell’oggi la salvezza inaugurata da Gesù che, per primo, ha vissute queste e tutte le altre beatitudini da lui proclamate.

 

Gesù non dice “siate poveri” ma dichiara beati coloro che si trovano in quella situazione. Annuncia una felicità paradossale che rivela un modo nuovo di vivere la vita e di pensarla, guardando tutto in rapporto con Dio, cioè al suo Regno. Sarà lui che realizzerà tutto questo nell’ultimo giorno e in lui si fonda questa nostra speranza, certi che non può smentire sé stesso.

Questa tensione escatologica è sottolineata con forza da Matteo che usa il “passivo divino”: gli afflitti saranno consolati da Dioi miti riceveranno da lui la terra d’Israele e così via. Il vivere in questa tensione significa che già oggi è possibile vedere germogliare nella nostra vita i semi della misericordia del Padre, che esploderà quando il tempo, questa nostra storia presente finirà.

Non significa però vivere attendendo passivamente: tutt’altro. Nathan André Chouraqui (uno scrittore, filosofo e storico algerino con cittadinanza francese, naturalizzato israeliano, che si impegnò tenacemente nella promozione del dialogo tra Ebraismo, Islam e Cristianesimo) traduceva il termine greco “beati” con “in marcia”: un invito a non accasciarsi sulle proprie difficoltà, ma a reagire e andare avanti con fiducia.

Queste sfumature e, in particolare quelle escatologiche, differenziano le Beatitudini di Gesù da quelle preesistenti in un testo di Qumran tutte rivolte a chi viveva secondo la Legge. Considerata la vicinanza di Gesù con la teologia degli Esseni, sicuramente le conosceva, d’altra parte erano patrimonio dell’intero ebraismo della sua epoca. Tra questa realtà e la sua teologia enochica (cioè che si fondava sul Pentateuco scritto del profeta Enoc) tutta centrata sulla "misericordia" del Padre e quella così detta del "Patto" o dell’Alleanza legata al Pentateuco di Mosè, c’era un confronto a volte anche acceso. Già in quell'epoca quella dominante era la seconda, nella quale poneva le sue radici la vita di Israele.


Matteo, a differenza di Luca e di Qumran, sottolinea gli aspetti esistenziali, intimi delle beatitudini rendendole grazie ai loro aspetti spirituali adatte a tutti, qualsiasi sia la categoria sociale di appartenenza.

Così si deve leggere la prima beatitudine rivolta ai poveri “in quanto al loro spirito”, vale a dire la condizione di coloro che, riconoscendo la propria pochezza difronte a Dio, vi si sottomettono, rimettendosi alla sua volontà, diventando i suoi “anawim”, i suoi poveri.

Similmente la giustizia non ha a che fare con quella sociale ma esprime, nel contesto del primo vangelo, un agire umano conforme alla volontà del Creatore. Avere “fame e sete di giustizia” significa allora desiderare di mettere in pratica la sua volontà e, i “perseguitati a causa della giustizia”, sono coloro che subiscono ogni tipo di sopruso e violenza per il loro impegno nel cercare di compierla. Vivere la propria vita in questo modo, con queste caratteristiche, è quell’essere puri in relazione all’intera propria persona, nella totalità del suo essere che viene ad essere sintetizzata nella parola cuore.

L’essere operatori o artefici della pace è allora quasi una conseguenza, perché non è solo assenza di guerra, ma l’operare per la concordia e la comunione con l’intero creato. 


Questa ricerca fattiva della pace nell’ebraismo è una delle condizioni perché Dio invii il suo Messia; per i credenti in Gesù di Nazatreth, il suo ritorno.

(BiGio)

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