Gv 3,16-18 - SS. Trinità

Amare, donare per salvarci: ma cosa significa?


Domenica scorsa la festa della Pentecoste si è compiuto (non terminato!) il tempo Pasquale aprendoci ad una nuova era: grazie al dono della Pace (cioè della presenza del Signore al nostro fianco tutti i giorni fino alla fine del mondo) e alla trasmissione dello Spirito Santo, la Comunità diventa portatrice per il mondo della vita del Padre che significa cancellarne il peccato.

 

Ora la Liturgia ci fa riprendere il cammino con due feste: la SS. Trinità oggi e il Corpus Domini domenica prossima quasi come una sintesi, un viatico da portare con noi per il rimanente cammino di quest’anno fino alla festa finale di Cristo Re.

 

I tre versetti dell’Evangelo di oggi sono densissimi e riportano la prima parte della chiusa della risposta che Gesù dà a Nicodemo, un fariseo, uno dei capi dei Giudei che lo aveva interrogato a nome di tutti: aveva palato infatti al “plurale”. Non solo dei farisei, ma anche a nome di tutti coloro, anche di noi, che cercano di tenere sempre tutto sotto controllo legati a quel “si è sempre fatto così”, “si è sempre detto così”. Quando poi qualche evento, qualche persona portano delle novità si cerca prima di inglobarle nel modo di pensare e di vivere che ci è “tradizionale”, poi di sterilizzarne gli aspetti più originali “normalizzandoli” togliendone ogni possibilità di inquietarci. 

Nelle ultime battute Gesù pare fare un monologo sintetizzando chi sia il Padre, la sua volontà e la missione che gli aveva dato: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.”

Due sono i verbi, le azioni, che caratterizzano il Padre, il primo è “amare” di un amore totalmente gratuito che non chiede nulla in cambio, proprio nulla. Questo è il senso del verbo greco agapan (da cui agape) qui usato per la prima volta e che cadenzerà poi l’intero Evangelo ritornando per 35 volte. È totalmente diverso dall’amore come eros (da cui erotico) che può sfociare nel possesso, nel gioco del potere e dei ricatti come purtroppo spesso i fatti di cronaca ci ricordano anche in questi giorni.

Dio ama talmente il mondo cioè gli uomini nonostante che un giorno, con un audace antropomorfismo, la Bibbia dice che guardando la loro malvagità quasi “si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gn 6,6). In altre parole, a Dio non sfugge cosa l’uomo abbia fatto e faccia della libertà con la quale è stato creato. Nonostante questo, non ha mai smesso un istante di amarlo fino a donargli del tutto gratuitamente (questo indica il verbo greco usato) la sua cosa più preziosa: “il suo Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Per ben capire dobbiamo tener presente che, non mondo semitico e in particolare quello ebraico, non esistono parole che indichino situazioni astratte; per capirci con un esempio banale: per dire che uno è robusto e forte, si dice che ha il braccio grosso … quindi anche il “credere” va tradotto in un qualcosa di concreto: accettare ed aderire al modello di vita indicato e praticato da Gesù, quello indicato in sintesi la scorsa domenica nella festa della Pentecoste, l’adoperarsi per cancellare il peccato dal mondo, realizzare una umanità nuova che al centro ha il dono gratuito di sé.

Vivere come ha vissuto Gesù, significa accogliere ed essere accolti nella sua vita divina che è la vita dell’Eterno. Non è un premio da godere dopo la nostra morte fisica se facciamo i buoni, il verbo non è al futuro “avrà”, ma “abbia – già oggi - la vita eterna”. 

Gesù aveva detto a Nicodemo che è necessario “nascere dall’alto”, cioè accogliere la vita divina e vivere secondo questa: Dio è amore che comunica, dona unicamente vita e, “infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Cosa significa salvare? È un verbo che per noi oggi nell’ambito della fede può sembrare “strano” o insignificante. Sarebbe forse meglio renderlo con liberare, liberare da ciò che ci opprime, dalle catene del nostro egoismo, delle nostre paure, dei nostri limiti, delle nostre incapacità di farsi prossimi, di condividere. Questo ci rende impossibile raggiungere e vivere in quella pienezza alla quale siamo chiamati: la vita eterna già da oggi e che porteremo con noi dopo la nostra morte mentre, ciò che non avremo vissuto secondo le intenzioni di amore di Dio, finirà “bruciato nel fuoco inestinguibile”. 

Gesù aggiunge: “chi crede (in colui che il Padre ha mandato) non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio”.

È necessario fare bene attenzione ai tempi dei verbi dell’Evangelo: non si dice che sarà condannato, ma che è già stato condannato. Il verbo greco in realtà significa emettere una sentenza e non emettere una condanna e la sentenza di chi decide nella sua libertà di non aderire ad una vita divina, rimane in delle tenebre sempre più profonde, immagine della morte in attesa che lo tocchi la misericordia del Padre che ha inviato il suo Figlio unigenito non per condannare, ma per salvare. A bruciare saranno le opere sbagliate, non l’uomo che è e rimane sempre più grande del suo peccato. Ce lo assicura anche S. Paolo e poi non si deve dimenticare che al nostro fianco tutti i giorni abbiamo quello Spirito che ci è stato promesso e donato.

(BiGio)

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