Gesù desidera indicare ai discepoli, e dunque a noi, come elaborare la paura, come mutare la paura in fiducia
I testi biblici della dodicesima domenica dell’Ordinario dell’annata A ci ricordano una verità elementare. Ovvero, che un credente si deve sempre misurare con la paura: la fede, infatti, si intreccia sempre con la paura, seppure con modalità e in forme differenti. Nel passo evangelico odierno (Mt 10,26-33), tratto dal discorso missionario, Gesù ripete più volte, rivolgendolo ai suoi discepoli, l’imperativo “non abbiate paura”. La stessa triplice ripetizione del comando (Mt 10,26.28.31) dice come la paura sia realtà potente e onnipresente. Nella prima lettura (Ger 20,10-13), ci viene presentata la testimonianza di Geremia, che vive il suo ministero circondato da nemici e derisori e che deve ricordarsi delle parole che gli furono rivolte al momento della vocazione: “Tu, stringi la veste ai fianchi, alzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti davanti a loro altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro” (Ger 1,17). Tutto questo ci dice come la paura sia una presenza assidua con cui il credente deve fare i conti. Certo, nei nostri testi biblici si tratta della paura suscitata dalla presenza di nemici, di persecutori, di presenze esterne ostili e minacciose. Sono coloro che vorrebbero zittire Geremia e che lo avversano, lo osteggiano, lo deridono, lo calunniano: sono coloro che vogliono impedirne il ministero, che ne desiderano e cercano la morte e che arriveranno a imprigionarlo. Così come nel brano evangelico sono gli avversari che i discepoli incontreranno nella loro missione. Del resto, come Gesù ha conosciuto opposizioni, accuse, ostilità, odio, così sarà anche per i suoi discepoli: “un discepolo non è da più del suo maestro … Se hanno chiamato Beelzebùl il padrone di casa, quanto più quelli della sua famiglia” (Mt 10,24.25).
Gesù desidera indicare ai discepoli, e dunque a noi, come elaborare la paura, come mutare la paura in fiducia e spiega che anche i suoi insegnamenti consegnati nel segreto, nel nascondimento devono essere annunciati pubblicamente (Mt 10,26-27). Che cosa può sostenere il discepolo nel suo annunciare coraggiosamente la parola? La coscienza della verità, anche se queste parole gli procureranno ostilità, incomprensioni, opposizioni. Non è detto se la verità della proclamazione si manifesterà storicamente o solo escatologicamente, al momento del giudizio finale, ma ciò che dà forza alla testimonianza dell’inviato è la coscienza del mandato ricevuto dal Signore e della verità del proprio dire, costi quel che costi, quand’anche fosse contro tutti e contro tutto. E paradossalmente, proprio le inimicizie suscitate indicano che il discepolo si trova sulla strada che è stata percorsa anche dal suo maestro (cf. Mt 10,24-25). Quindi può aver paura della propria incolumità fisica, della violenza che può subire e che può giungere fino all’uccisione (Mt 10,28). Qui Gesù invita il discepolo a discernere dove risiede la vera vita e ad accogliere il fatto che vi sono beni più profondi per salvaguardare i quali anche la perdita della vita può acquisire un senso. E di nuovo ricorda che l’unico da temere veramente è colui che è Signore non solo del corpo ma anche dell’anima.
Infine (Mt 10,29-31) Gesù ricorda che colui che è destinatario del timore reverenziale del discepolo è il “Padre vostro”, colui che si preoccupa perfino della vita di creature come i passeri. Più che un’esortazione psicologizzante alla stima di sé, abbiamo l’invito alla fede in colui a cui occhi l’uomo è prezioso: “Voi valete più di molti passeri” (Mt 10,31). Le esortazioni a non temere evolvono sempre più verso l’invito alla fiducia. Dio infatti è presentato come Dio della cura, Dio di tenerezza, Dio che si occupa e preoccupa dell’uomo. Custodire nel profondo di sé questa convinzione è motivo di fiducia, e dunque anche di forza e di coraggio.
Quindi Gesù, con il detto sul riconoscimento pubblico di lui da parte del credente, la confessione di lui fatta coraggiosamente “davanti agli uomini” e invece il rinnegamento, afferma che il comportamento del credente nella storia ha delle conseguenze nel giudizio finale (Mt 10,32-33).
(dal commento di Luciano Manicardi)
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