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Mt 9,36-10,8 – XI PA

Pregare non significa delegare e non si tratta di fare miracoli 

 


La Liturgia, dopo averci riepilogato il mistero pasquale nelle feste dell’Ascensione e della Pentecoste, e richiamata la nostra attenzione nelle feste della Trinità e del Corpus Domini su quanto, da questa domenica in poi, ci sarà piano piano consegnato domenica dopo domenica fino alla festa di Cristo Re.

 

Prima della Quaresima avevamo lasciato Gesù sul Monte dove aveva proclamato le Beatitudini e, oggi, lo seguiamo mentre scende e incontra una umanità “stanca e sfinita” che non sa che pesci pigliare, malata fisicamente e spiritualmente, in una parola: allo sbando. Ne ha “compassione”. Il verbo usato, che compare 12 volte negli evangeli, richiama lo stringersi dello stomaco, il fremere di tutto il corpo, l’utero materno nelle doglie del parto. 

Forse a questo punto potremmo chiederci quale sia il nostro sentimento di discepoli, di coloro che hanno accettato di far un unico corpo con il Signore per continuare ad essere con lui segno efficace dell’amore di Dio per gli uomini, di fronte ai bisogni dell’umanità, dell’uomo sfinito, che ha provato solo delusioni, affranto dagli scandali, travolto dal secolarismo e dall’uso del potere, dagli eventi naturali e dalle guerre dalle quali scappa cercando un altro futuro… ci basta l’emozione della compassione? Non è però questo che significa in questo Vangelo: la compassione non è vera se non si trasforma concretamente in solidarietà.

Di fronte a questa realtà e al turbamento di Gesù, potremmo rimanere sorpresi che la sua reazione è la richiesta rivolta ai discepoli di pregare perché “il padrone delle (abbondanti) messi mandi operai”. Tradizionalmente questo invito viene letto come una invocazione perché il Padre susciti vocazioni presbiteriali, i pastori ai quali delegare il compito di “mietere”. 

La preghiera però non ha questo compito, bensì quello di sintonizzarsi per compiere assieme con il Figlio l’opera per la quale è stato inviato. Di fatto gli “operai”, i collaboratori corrispondono ad ogni discepolo, a chiunque sperimenti la stessa passione di Gesù per l’umanità. Ecco perché dà loro le sue stesse capacità, il suo stesso “potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità”.

 

Matteo a questo punto ci elenca i nomi dei discepoli Maestro, cosa che avviene comunemente nella tradizione giudaica così come in quella greco-romana. La particolarità della sua presentazione è che vi risuona e vi si richiama l’inizio del libro dell’Esodo (1,1): “Questi sono i nomi dei figli di Israele …”. Dunque i Dodici rappresentano le tribù di Israele che all’epoca erano ancora quasi tutte disperse. Gli Apostoli (=inviati) di Gesù sono uomini “normali”, non ci sono dotti, né scribi, nessuno fa parte dell’establishment e c’è di tutto: esattori di tasse (assimilati ai peccatori e ai pagani), galilei, cananei, giudei (Giuda l’Iskariota che significa l’uomo che proveniva da Qeriyyot, una città della Giudea). È un insieme di persone non omogenee chiamate a fare gruppo; sicuramente hanno dovuto fare un cammino per accettarsi reciprocamente. Anche tra i dispersi figli di Giacobbe al tempo di Gesù le situazioni erano molto diverse e, se questo è il riferimento, la Chiesa nascente pensata da Mattero non era certo un “altro” Israele, ma quello “stesso” Israele di Dio che il Messia, nelle attese del popolo, aveva il compito di radunare e riportare in unità.

In Matteo è questa la missione della quale Gesù prima di tutto si sente investito e lo afferma chiaramente in più occasioni, per fare solo un esempio quando dirà alla donna cananea: “Non sono stato inviato se non alle pecore disperse della casa di Israele” (Mt 14,25). L’allargamento della missione a tutte le genti post-pasquale, non annulla ma comprende la precedente senza però che questo significhi alcun proselitismo da parte della nascente comunità cristiana. Nel frattempo non vuole certo escludere nessuno ma è la pedagogia di Dio che ha voluto che le benedizioni promesse ad Abramo giungessero a tutti i popoli attraverso Israele ed è allora a quest’ultimo che per primo va annunciato l’Evangelo.

 

Inoltre quando Matteo ne elenca i nomi, lo fa a coppie per dirci che la missione non è opera di singoli, ma di comunità anche nella forma minima di due solo credenti. Insiste poi molto sulla dimensione istituzionale per dirci che tutte le “missioni” dipendono dal mandato di Gesù e che l’autorità di queste è la stessa della quale il Signore stesso è stato investito. Non è un caso che nel proseguire la sua narrazione, il primo Evangelista racconti 10 episodi di guarigioni nelle quali Gesù con la sua parola dona un volto nuovo, risanato all’umanità ferita, riorientandola dove era senza un orizzonte di senso nel quale camminare “stanca e ferita come pecore che non hanno pastore”. Questo è stato quello che ha fatto lungo l’intera sua vita e che ora chiama noi a continuare. Non si tratta di fare miracoli, se non quello della solidarietà.

Rispetto agli altri evangelisti, sorprende che in Matteo, all’invio dei discepoli, non vengano in seguito raccontate le loro imprese e le loro impressioni come per esempio in Lc 10,17. Bisogna però ricordare che siamo all’inizio del racconto, ai titoli di testa, e quell’essere “inviati” dei discepoli, è prima di tutto un essere chiamati ad inserirsi nella sua missione, per “vedere” e capire concretamente in cosa consista.

Matteo mette subito in chiaro un aspetto fondamentale: la missione va svolta nel completo distacco da ogni vantaggio personale perché altrimenti il messaggio perderebbe subito di qualsiasi credibilità: “Gratuitamente avere ricevuto, gratuitamente date”.

(BiGio)

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