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Gv 6, 51-58 – Corpus Domini

Il nostro non è un Signore che ci assorbe, ma che ci potenzia dilatando le nostre capacità d’amore



L’Ascensione e la Pentecoste hanno completato il Tempo Pasquale quasi come un riassunto e la Liturgia ci sta introducendo nel Tempo Ordinario con due feste, SS. Trinità e Corpus Domini, consegnandoci il messaggio che siamo chiamati a scoprire ed approfondire, domenica dopo domenica, fino alla fine di quest’anno, la festa di Cristo Re. 

 

Il difficile il discorso di Gesù della scorsa domenica era focalizzato attorno a tre verbi: amare, donare, credere. Tutto girava attorno a quel “credere” nel Figlio unigenito del Padre che, nel linguaggio semitico, non ha nulla a che vedere con una adesione “intellettuale”, ma chiede la concretezza di un vivere per gli altri in un amore totalmente disinteressato come è stato quello di Gesù. Questo significa trovarsi inseriti nel compito che gli ha affidato il Padre: quello di “salvare” il mondo, cioè “liberare” gli uomini da ciò che li opprime, dalle catene del loro egoismo, delle loro paure, dei loro limiti, delle loro incapacità di farsi prossimi, di condividere. 

 

Oggi la Liturgia cerca di farcelo comprendere meglio, proponendoci un brano della “sezione del pane” dall’Evangelo di Giovanni che, assieme alla lavanda dei piedi, “sostituisce” la narrazione dell’istituzione dell’Eucaristia.

Gesù si fa pane perché quanti lo “mangino” diventino a loro volta figli di Dio e siano capaci di farsi pane per gli altri. Questo è il percorso della sequela: una adesione concreta e non solo teorica al modo di vivere del Figlio, fino al dono della sua vita perché il mondo viva nonostante tutte le fragilità dell’uomo. Con questo Gesù desidera dirci che la vita di e in Dio non si dà al di fuori della realtà umana. Se Dio è sceso facendosi “carne” in tutto simile a noi, è in questa nostra realtà che dobbiamo cercarlo; è quasi inutile sforzarsi di compiere un percorso inverso come quello indicato dall’ascesi.

 

“Se non mangiate la carne del Figlio dell’Uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Gesù si presenta come alimento che dà la capacità di intraprendere il viaggio verso la salvezza, cioè una vita vissuta nella libertà fino alla pienezza alla quale siamo chiamati. L’immagine si rifà con chiarezza all’agnello pasquale immolato la notte dell’esodo dalla schiavitù dell’Egitto e il verbo greco usato per mangiare (ricorre 11 volte, 4 volte in questo brano) è molto aspro, duro; significa masticare, triturare, assimilare fino all’ultima briciola. Gesù, con questo termine rude, desidera farci capire bene cosa ci chiede: “Ci stai a fare della tua vita quello che io ho fatto della mia?”. Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa accogliere la sua vita, il suo spirito, diventare il suo corpo e ad essere con lui segno efficace dell’amore del Padre tra e per tutti gli uomini.

Lui il Verbo, la Parola che è venuta ad abitare tra di noi si è fatta carne per essere “masticata”, “ruminata”, per essere assimilata fino a farci diventare una sua icona vivente.  A questo ci invita anche quella antichissima forma di preghiera che è la Lectio Divina, alla quali i Padri della Chiesa invitano tutti i credenti.

 

Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” più che “rimanere” il verbo greco richiama l’immagine del “dimorare” come Gesù stesso aveva già annunciato (Gv 14,23b). Continua così la presenza di Dio tra il suo popolo: sotto la Tenda del Convegno nel deserto, nell’Arca dell’Alleanza nel Santo dei Santi del Tempio, ora in noi e nella sua Chiesa.

Il nostro non è un Signore che ci assorbe, ma che ci potenzia dilatando le nostre capacità d’amore: alla vita ricevuta da Lui, invita a farne corrispondere una comunicata senza condizioni a tutti coloro che incontriamo sulle strade del mondo così come lui ci ha mostrato.


(BiGio)

 

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