Il verbo “Agapan” caratterizza il comportamento del discepolo seguendo il modo di amare del Padre nella totale gratuità, senza condizioni, senza attendersi nulla in cambio. È questa quella “perfezione” che ci viene chiesto di essere, nulla di più che di essere il segno efficace del suo amore nel mondo.
Anche questa Domenica Gesù continua il suo insegnamento che la Liturgia ci fa seguire, pericope dopo pericope, nel quinto capito dell’Evangelo di Matteo.
Dopo aver proposto il suo “manifesto” le Beatitudini ed aver precisato che queste sono da vivere immersi nella quotidianità di tutti i giorni, perché solo così si può essere quel pizzico di sale che offre un orizzonte di senso per la vita e quella luce capace di indicare la via per realizzare la volontà del Padre, ha spiegato che tutto questo si inserisce nella Torà allargandone le prospettive, riportandola al suo splendore iniziale.
Già questo poteva bastare ed essere più che sufficiente come un obiettivo impegnativo, difficile da raggiungere, oggi sembra alzare ancora di più l’asticella chiedendo di essere “perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”. Missione impossibile verrebbe da dire e, scoraggiandosi in partenza, dire che non vale nemmeno la pena di iniziare. Facendo così però significa che di Dio abbiamo una immagine di potenza e grandezza ineguagliabile, dimenticando quella stupenda sintesi che Paolo scrive ai Filippesi (2,5-11) dicendo che Gesù, pur essendo Dio, assunse la condizione di servo, diventando simile agli uomini facendosi obbediente fino alla morte. “Servo” non nel senso passivo e succube di una volontà altrui come immediatamente viene facile a pensare, ma perché lungo tutta la sua vita – fino alla morte – riuscì sempre a discernere e scegliere di fare la volontà del Padre come un uomo qualunque quale siamo noi. Quindi è possibile anche a noi nonostante le nostre mille fragilità, incoerenze e deviazioni.
Gesù in questo suo dire ci dice quali siano le qualità del Padre da imitare per essere “perfetti”. Innanzitutto avere una prassi di vita che spezzi il cerchio di ogni violenza altrimenti questa diventa una spirale sempre più ampia. Non significa rimanere passivi di fronte ad una angheria subita o che vediamo subire da altri accettando ogni prepotenza: è il rifiutare di scendere al suo livello, è il rifiutare la vendetta. Non significa essere stupidi offrendo l’altra guancia a chi ti ha schiaffeggiato, cosa che lui non ha fatto, ha però chiesto ragione di quella violenza subita disorientando chi lo aveva percosso (Gv 18,22-23). È questo quell’esempio che fa sul dare anche il mantello a chi vuole la tua tunica (la legge impediva di requisire il mantello perché serviva anche da coperta per il freddo della notte), a fare due miglia a chi ti vuole costringere a farne uno con lui. Non è un invito a non difendersi, ad accettare tutto, ma ad essere creativi per togliere ogni alibi a chi è violento, è l’essere sempre e comunque costruttori di pace perseguendola pure contro ogni speranza, anche se ti può portare alla morte, è il trovare il modo di far capire che la tua volontà di colpirmi in qualsiasi modo non sarà mai così grande quanto la mia volontà di volerti e farti del bene. La rinuncia alla violenza è il segnale che il Regno dei Cieli sta avanzando, che un mondo “nuovo” ha cominciato a farsi strada fra di noi. Dove c’è violenza, di qualsiasi tipo, il segno è il contrario.
“Amare gli amici” è facile e all’epoca si era diffusa l’idea di odiare i nemici. Per esempio a questo invita il Salmo 139 (vv 21-22) e anche a Qumran si invitava ad “odiare i figli delle tenebre”. Però questo non c’è nella Torà, anzi c’è esattamente il contrario quando in Esodo 24,4 si è esortati ad aiutare il tuo nemico quando lo vedi in difficoltà e, da questo, la sapienza ebraica ha sempre letto la proposta di amare anche il nemico, aspetto evidentemente dimenticato…
Gesù aggiunge “pregate per quelli che vi perseguitano” perché solo pregando, cioè ascoltando la Parola del Padre e lo Spirito che è in noi, si avrà la capacità di dargli sempre ascolto e riuscire là dove ci sembra impossibile: l’amare i nemici senza attendersi nulla, senza nessun calcolo. Il nostro agire forse non cambierà il cuore del nemico, la sua volontà di male, di violenza; ma non è questo che conta. L’importante è l’essere un figlio del Padre che significa essere la sua immagine efficace nel nostro agire ed esprimere quell’amore che lo caratterizza e che qualifica il suo Regno che già oggi possiamo così vivere. Amare però non significa fare sempre e soltanto carezze, sorrisi smielati a 48 denti. A volte è certamente necessario assumere posizioni dure, ferme; l’importante è che queste nascano dall’amore per l’altro e non per odio.
“Agapan” è il verbo usato in greco e non ha nulla a che vedere con l’amore spontaneo verso gli amici, i parenti o quello che spinge all’eros, è un verbo usato raramente (in tutto una dozzina di volte nell’intera letteratura greca antica). Questo verbo caratterizza il comportamento del discepolo seguendo il modo di amare del Padre nella totale gratuità, senza condizioni, senza attendersi nulla in cambio. È il bisogno di vedere l’altro felice, realizzato in quella pienezza alla quale la vita lo chiama, al di là di ogni logica commerciale che porta alla ricerca della reciprocità. Comportandovi così sarete realmente “figli del Padre vostro che è nei cieli” ed è questa quella “perfezione” che ci viene chiesto di essere
(BiGio)
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