In quest’ultima Domenica prima dell’Ascensione e della Pentecoste si fa sintesi attorno ad una parola facile da dire, difficile da vivere, frequentemente equivocata: “amore”
Subito dopo Pasqua gli Evangeli ci hanno indicato come incontrare il Risorto, o meglio, in quale forma quali siano le realtà nelle quali lui si fa presente facendoci superare le incertezze, lo scoramento dopo la sua morte. Sono due: la comunità ecclesiale e l’umanità ferita dandoci come compito quello di “strappare” (=perdonare) tutti dal mondo vecchio basato sull’egoismo (=il peccato) per farli entrare nel Regno dove è al centro il bisogno dell’altro.
In seguito ci sono state offerte due immagini: quella del “Pastore bello” e quella della “vigna” per invitarci a cogliere le modalità con le quali Gesù ha vissuto e che ci “ha posto” davanti per continuare la sua opera, lasciando al Padre il compito di “purificare” progressivamente la nostra vita, tesa ad imitare il Figlio, “tranciando” le nostre imperfezioni perché i nostri frutti, come grappoli di uva, possano essere sempre più grandi. A noi è chiesto di portare sempre più amore nella realtà che viviamo.
In quest’ultima Domenica prima dell’Ascensione e della Pentecoste si fa sintesi attorno ad una parola facile da dire, difficile da vivere, frequentemente equivocata: “amore”. In genere la si colloca nell’ambito sentimentale e a identificarla con l’attrattiva che suscita in noi ciò che è bello: dalle persone all’arte, dagli hobby allo sport. In greco questo tipo di amore è definito come “eros” che può sconfinare nell’egoismo, nel servirsi esclusivamente dell’altro, ad accogliere solo ciò che dell’altro può arricchirci o soddisfarci senza dare nulla in cambio. Le cronache ne sono piene.
Nei discorsi dell’Ultima Cena “amore” ricorre ben 25 volte, nella pericope di oggi 4 e per 5 volte il verbo che ne deriva ma non è “eros”, bensì un termine greco praticamente mai usato nella grecità classica: “agapao” che, sostanzialmente, è quella linfa vitale che scorreva nella vite la settimana scorsa.
L’amore di cui ci parla Giovanni ha origine in Dio e da lui scende suscitando una dinamica relazionale nella quale ciascuna creatura è chiamata a lasciarsi coinvolgere divenendo a sua volta soggetto di amore. Non c’è spazio per nessun protagonismo personale: ci è richiesto ad essere solo dei conduttori, dei mediatori che trasmettono. Nessuno ha mai visto Dio ma questo si fa presente nel “frutto (al singolare!) dello Spirito che è agapao”: carità, amore (Gal 5,22).
Gesù dice “Come il Padre ha amato me …” e, attenzione, non continua dicendo “così io ho amato il Padre” bensì “così io ho amato voi” e a noi non chiede poi di amare allo stesso modo lui ma “amatevi gli uni gli altri”. Non viene indicata una reciprocità (sarebbe “eros”), un cerchio chiuso che finisce per mangiarsi la coda, ma chiede di aprirsi all’altro nella più assoluta gratuità. La stessa cosa la indica Matteo “Se amate quelli che vi amano, …” (5,46-47) e Luca “amate i vostri nemici e prestate senza sperare nulla” (6,35).
Gesù poi chiama i discepoli “amici e non servi” perché questi ultimi eseguono passivamente gli ordini avuti ricevendone un compenso: è a questo cui tende il loro operare. Gli amici invece sono quelli che conoscono e condividono gli obiettivi del Signore tanto da rimanere e dimorare in lui prestandogli le proprie mani operose. È una relazione che si esprime come dono si sé, nella condivisione della propria vita nella gioia per la crescita dell’altro, amico o meno.
Questo ci fa presente che la vita di fede non può esaurirsi in una appartenenza ecclesiale ripiegata in una pratica rituale o liturgica ma in un’attenzione concreta per gli altri e impegna a cercare, nutrire, far zampillare sempre nuova acqua fresca dalla relazione personale con il Signore; è quella linfa che ci mantiene vivi in lui come i tralci nella vite. Non ci viene proposto di avere atteggiamenti affettivi o intimistici, ma di prendere sul serio nella propria concreta esistenza l’imitare l’operare di Gesù fino ad aderirvi talmente da poter dire con Paolo: non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me (Gal 2,20).
“Chi mi ama anch'io lo amerò e verrò a lui e prenderò dimora in lui” (Gv 14,23): è così che, piano piano, siamo plasmati quali amici del Signore e l’amarlo è il portare a compimento la sua volontà d’amore per gli altri. È questo che significa quel “Voi siete miei amici se fate ciò che vi comando”, non c’è nulla che tenda a prevaricare la nostra libertà configurandosi come un ricatto.
Poi Gesù conclude “non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto”. Per portare frutto la comunità cristiana deve andare, la comunità dei seguaci di Gesù non deve attendere che le persone vengano, ma deve andare. Verso dove? Verso gli emarginati, verso gli invisibili, verso le persone disprezzate, “e il vostro frutto rimanga” sapendo che “tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo conceda”. Nel nome non significa la formula “per Cristo nostro Signore” ma l’avere la coscienza che nella cultura ebraica significa nella somiglianza, nell’identificarsi con Gesù, facendo come lui ha fatto. Non è forse con queste parole che termina ogni consacrazione eucaristica?
(BiGio)
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