Ma, in concreto, “che cosa dobbiamo fare?” La risposta di Giovanni Battista non consiglia nulla nei rapporti uomo/Dio, invece afferma che la conversione passa innanzitutto attraverso i rapporti tra gli uomini perché è in questi che può vedere il sorgere del Regno di Dio.
Siamo stati abituati a considerare il cammino di Avvento come quello di Quaresima, un percorso cupo a partire dall’abito liturgico viola (prima del Vaticano II era addirittura il nero) a simboleggiare un tempo di penitenza e di attesa. Se però siamo attenti ai brani della Scrittura che ci vengono proposti in queste Domeniche, i toni sono tutt’altro che cupi.
Dalla promessa che saremo liberi da un mondo dove regna l’ego all’invito, superando le nostre paure e i nostri timori, ad essere pronti ad accogliere il Regno di Dio. È questo una speranza che può realizzarsi in ogni momento del nostro quotidiano sconvolgendo la nostra vita come accadde a Maria ma portando una grande gioia. È a questa che la Liturgia di oggi ci sollecita con forza.
È con questa gioia che il Battista (Lc 3,1-8) ci invita a preparare la via del Signore, a raddrizzare i suoi sentieri così ogni uomo potrà vedere Dio che ci salva dal mondo di violenza dell’uomo sull’uomo nel quale viviamo. È dunque ora di fare frutti degni di conversione, cioè di modificare la nostra vita rendendo così presente il Regno di Dio fra di noi nel quale domina l’attenzione al bisogno dell’altro.
Va bene ma allora, in concreto, “che cosa dobbiamo fare?” è la logica conseguente domanda alla quale l’Evangelo di oggi attraverso Giovanni Battista ci risponde.
Nelle folle che lo attorniano si nota subito che mancano coloro che appartenevano all’élite del popolo: gli scribi, i farisei e i sacerdoti e nelle richieste fatte a chi stava accogliendo il suo messaggio non ce ne è nessuna che riguardi il rapporto con Dio o il culto; la conversione passa innanzitutto attraverso i rapporti tra gli uomini perché è in questi che può vedere il sorgere del Regno di Dio.
La prima indicazione che si può notare è allora che c’è qualcuno che si pone una domanda e qualcun altro che non viene sfiorato dall’invito di cambiamento del Battista. La conversione allora inizia prima di tutto con la presa di coscienza della propria condizione reale di distanza rispetto alle esigenze della volontà del Padre. Inizia quindi con il coraggio di porsi una domanda su cosa si debba fare per tornare a corrispondere al suo disegno d’amore. Chi non se la pone, è destinato a rimanere prigioniero nella realtà del mondo dalla quale c’è la promessa di essere liberati.
È poi significativo che l’accento delle proposte di Giovanni cade non tanto su indicazioni di cose che non si devono fare (non pretendere, non abusare, non far torto, non maltrattare), quanto su atteggiamenti di vita da avere: condividere, fare parte, dare. Quasi una grammatica dell’umano nella relazione con l’altro. Il suo invito è quello di cambiare il nostro modo di guardare gli altri, di riuscire a vedere il loro bisogno e di andarvi incontro condividendo la loro fatica e aiutandoli a trovare le risorse per farvi fronte. Il verbo greco usato da Luca metadìdomi indica che mediante il dare si crea comunione con colui al quale si dona senza fare calcoli, crea fraternità. Non si tratta di dare il nostro superfluo a chi non ha, ma di condividere un tratto di strada della nostra vita con chi è nel bisogno affiancandoci a lui, non lasciandolo solo rispettando la sua unicità, capendo quando sarà il momento di lasciarlo andare anche per strade diverse da quelle proposte. L’importante sarà averlo accompagnato a fare delle scelte coscienti mettendo dei limiti alla propria presenza per non incorrere in quegli atteggiamenti dai quali il Battista ci mette in guardia e ci chiede di cambiare.
All’epoca di Gesù, Israele si considerava come una vedova tanto era distante il suo rapporto con Dio e aspettava il Messia come lo sposo e si chiedeva se questo non fosse Giovanni. Per comprendere la sua risposta è necessario rifarsi all’istituto giuridico del levirato: quando una donna rimaneva vedova senza un figlio, il cognato aveva l’obbligo di metterla incinta per dare una discendenza. Se il cognato non voleva il gesto simbolico era quello di scioglierli i calzari.
Diventa allora più chiara la risposta del Battista che afferma di non essere lui lo sposo atteso che avrebbe dovuto “fecondare” ridando vita e discendenza alla sposa (Israele) perché “viene uno che è più forte di me – cioè che ha più diritto di me – a cui non sono degno di slegare i legacci dei sandali” che vi immergerà (=battezzerà) nel suo stesso Spirito e farà in modo che camminerete secondo le mie intenzioni, osserverete e metterete in pratica (Ez 26,26-27). Ecco il motivo della gioia di questa Domenica.
(BiGio)
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