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Il caso We Are Social: il dibattito sul sessismo che dovremmo fare noi uomini

Il caso We Are Social ha generato una ridda di commenti e in molti e molte, con diverse competenze, hanno detto la loro. Poco però è stato detto di quanto quell’esempio racconti di uno specifico problema degli ambienti di lavoro, che non è inquadrabile semplicemente in un problema di “sessismo sistemico”.

Certamente questa è una condizione di partenza, ma la particolarità di ciò che accade tra colleghi e colleghe che condividono uno spazio di lavoro ha delle peculiarità che non sono accostabili a quello che succede nelle generiche “chiacchiere da spogliatoio”. Queste ultime sono certamente riprovevoli esempi di sessismo più o meno consapevole - vedremo che non è questo aspetto a caratterizzarle - ma il fatto che accadano tra chi condivide spazi e tempi di lavoro è un’aggravante non trascurabile.
La particolare gravità del sessismo al lavoro emersa dal caso We Are Social la possiamo desumere dalle “risposte” che commentatori e commentatrici tentano di opporre alle sacrosante rimostranze sociali arrivate soprattutto da chi fa delle questioni di genere il proprio lavoro e il proprio attivismo politico.
Più di una testata ha dato risalto alla frase espressa da chi lavora nell’agenzia “We Are Social”, frase che è un luogo comune nei casi di violenza di genere: “Non siamo tutti maniaci”, ennesima versione del “raptus”, l’argomento per il quale questa condotta riprovevole sarebbe un caso eccezionale e imprevedibile dovuto appunto a un malato, un perverso o comunque a pochi casi di persone con una forma di “anormalità” di un qualche tipo. L’esperienza e la testimonianza di migliaia di donne, gli studi ormai consolidati da decenni, la raccolta di dati relativi a crimini e denunce, smentiscono questa fantasia: sono proprio uomini normalissimi a compiere questi atti, dal più efferato femminicidio, allo stupro, alla diffusione non consensuale di immagini e video intimi, come alla molestia e alla violenza verbale in ufficio. 
Si tratta il più delle volte di conoscenti, vicini, parenti, amici o colleghi. Nel caso di chi lavora con le persone colpite da questa forma di violenza il caso è ancora più complesso, principalmente per due motivi: 

L'articolo di Lorenzo Gasparrini continua a questo link:



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