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Domenica XIV PA - Mt 11,25-30

Ciascuno ha il suo, fatto come un vestito su misura, sta a pennello e si porta con gioia



Nelle scorse tre settimane la Liturgia ci ha proposto l’istruzione che Gesù ha dato ai discepoli per la missione e li ha avvisati che le difficoltà non sarebbero mancate come non sono mancate a lui e, Matteo nel capitolo 11 del suo Evangelo, ci ha infatti raccontato la delusione di Gesù per non essere stato compreso fino al rifiuto. Anche suo cugino Giovanni non lo ha capito assieme a tutti coloro che si attendevano un Messia molto diverso, un giustiziere; invece si trovano difronte ad uno che porge a tutti la misericordia del Padre. Aveva compiuto molti miracoli, molte guarigioni nelle città che aveva visitato nel suo andare e, questo veniva certamente apprezzato molto di più del programma di vita che proponeva. Le sue Beatitudini erano ben lontane da quelle cui in genere si aspira, cioè star bene, arricchire, imporsi, farsi servire… La sua proposta Gesù era ed è invece quella di mettersi a servizio dei fratelli, dimenticando sé stessi per amore degli altri e questo interessa meno, così tanti entusiasmi si raffreddarono. In trasparenza possiamo leggere anche la nostra realtà: ci sta bene una religione che porta acqua al nostro mulino facendoci sentire al riparo da ogni difficoltà, meno la richiesta di abbandonare le nostre sicurezze per mettere al centro della nostra vita il bisogno dell’altro, che ci chiede di essere uomini liberi da ogni vincolo per prendere la propria vita (la propria croce) nelle nostre mani e per continuare la sua missione, il suo annuncio di misericordia e dell’abbraccio del Padre a tutti.

Nei versetti immediatamente precedenti a quelli di oggi Gesù ci appare sconfortato e si lamenta “Ahi Corazin, ahi Betsaida” (non guai come traduce la Cei) non hai saputo cogliere ed aderire a quanto ti ho annunciato. Subito dopo però nel primo versetto della pericope di oggi, esplode in una lode al Padre: quasi in un istante passa dalla delusione ad un moto di gioia, perché? Perché gli sovviene che tutto il creato e ciò che avviene in esso appartiene al Padre, anche le delusioni, le difficoltà e lo loda per la sua vicinanza che non viene mai a mancare a nessuno. In fin dei conti si dice che se non tutto viene da Dio, in ogni cosa comunque c’è qualcosa che può portarci a lui, anche forse solo un piccolo seme del suo Regno. Chi meglio può accorgersene sono quei semplici, quei piccoli, quei “microbi” come lui aveva definito i suoi discepoli la scorsa settimana; lo sono perché sono persone “libere” e, per questo, facilmente si trovano ad essere emarginate o ai margini dalla società perché hanno scelto di condividerli con gli “scarti” dell’umanità. Sono quelli che hanno accolto la sua sfida di prendere nelle proprie mani la propria vita, di condividere il suo modo di essere e di trovarsi così “controcorrente”, fino da esserne a volte spaesati. Non sono certo questi tra quelli che pensano di sapere tutto su come vanno le cose del mondo, nella loro presunta autosufficienza e autoreferenzialità hanno l’impressione di poter gestire ogni cosa a loro piacimento e affermare con sicumera: o con noi o contro di noi.

Certo la via della sequela a volte è impervia, non è larga e piana, non è asfaltata. Fa fatica vivere con coerenza le proprie scelte alla luce della fede. Non cè mai la certezza di aver fatto quella corretta, lo si capisce solo nel tempo dai frutti che porta: è sfibrante e a volta ci si trova oppressi dal peso delle scelte fatte, di quella croce – che nessuno ci ha imposto - ma della quale si è deciso di farsene carico. Viene voglia di lasciarsi andare alle lamentele, alla depressione per non riuscire a vedere sbocchi positivi immediati nella società, nel lavoro, in famiglia, nella Chiesa, nelle nostre Comunità.

Però è in queste situazioni che si incontra quel Dio che ha rinunciato alla sua onnipotenza per poter essere sempre al nostro fianco ma rispettando la nostra libertà e i nostri errori, perché tutto è suo. Ecco allora l’invito ad unirsi alla lode di Gesù: “Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra perché tutto mi hai dato”; è l’invito ad alzare lo sguardo dalla nostra piccola realtà e a lasciarsi invece coinvolgere nella sua intimità con il Padre. Allora si scoprirà che la nostra vita, la croce, che abbiamo deciso di prendere nelle nostre mani per seguirlo, il giogo nel quale ci siamo affiancati a lui è anche un luogo di pace, di quello Shalom che ci ha detto essere la sua presenza tra e in noi.

C’è una sfumatura che spesso sfugge: Gesù non dice “venite dietro a me” come ha detto ai discepoli, qui dice a tutti “venite a me” tra le mie braccia accoglienti e troverete riposo perché vi troverete affiancati a me sotto il mio giogo e scoprirete che non è opprimente ma è “dolce e leggero”. Attenzione ancora che quel termine tradotto dal greco con “dolce”, in realtà significa che “si adatta bene a chi lo porta”, che è fatto a misura della sua capacità di portarlo e conclude dicendo: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore”. Letteralmente “umile” e indentifica colui che procede a capo chino, che non inorgoglisce il suo cuore e non leva con superbia lo sguardo (Ps 130), questo lo pone in condizione di essere pronto a cogliere il bisogno dell’altro come un comando al quale obbedire facendosi prossimo. È questo che lo rende “mite”, capace di sopportare senza cedere alla tentazione di scendere al livello di chi lo sta angherando ma senza mai rassegnarsi alle violenze subite, anzi continuando a lottare per il superamento delle vecchie logiche del mondo ripiegato su sé stesso, sulla sua presunta autosufficienza.

Questi due termini, “mite” e “umile”, sono stati i capisaldi tra i quali Gesù ha ha vissuto la sua vita, i due punti tra i quali è teso quell’arco colorato tra cielo e terra che il Padre ha posto dopo il diluvio ad abbracciare il creato.

(BiGio)

 

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