"La parabola ci deve turbare. Se la ascoltiamo e non ci sentiamo turbati c’è qualcosa che non quadra nella nostra morale" (Amy-Jill Levine)
Coma abbiamo cominciato a vedere nel post precedente (qui), l’interpretazione delle parabole di Gesù da parte della studiosa Amy-Jill Levine produce un notevole effetto di straniamento che aumenta se volgiamo lo sguardo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14).L’interpretazione corrente dipende direttamente da quella offerta dall’evangelista, secondo cui “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Luca dà il via alla tradizione secondo cui la parabola è da intendersi in termini di ipocrisia del fariseo e di santità del pubblicano. Ma perché il fariseo sarebbe ipocrita? Perché ringrazia in cuor suo il Signore per la sua condizione esistenziale? E il pubblicano, l’esattore delle tasse per conto dei Romani invasori e per il suo tornaconto personale, che confessa il suo peccato senza però proporsi di modificare la propria vita, perché dovrebbe essere considerato santo? Al massimo, potrebbero risultare l’uno antipatico e l’altro più simpatico… La Levine sottolinea che non c’è nulla di bigotto nella preghiera del fariseo, ma che c’è piuttosto la riconoscenza per la grazia che Dio offre a chi lo supplica, mentre chiedere perdono per i peccati senza proporsi di smettere di peccare appare come “una grazia a poco prezzo”.Eppure,...
Questo secondo intervento di Maria Grazia Giordano continua a questo link:
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