La caratteristica fondamentale della vera accoglienza è la gratuità. Si accoglie non perché se ne avrà un vantaggio, ma semplicemente perché è lui: un uomo o una donna che incrociano il nostro cammino; è fare spazio all'altro in sé, e dirgli, con semplicità, che è importante per noi stessi.
È la terza domenica consecutiva che la liturgia si sofferma sul discorso missionario di Gesù, così come ce lo riporta il Vangelo di Matteo. Un discorso che ci riguarda tutti, in quanto discepoli-missionari (papa Francesco), per via del Battesimo. E vedremo, la domenica successiva, che la propria missione consiste, in definitiva, nell'accogliere la piccolezza della propria vita, come ha fatto Gesù. Perciò «perdere» e «accogliere» sono due verbi da sottolineare, nel loro ripetersi, nel Vangelo di questa domenica.
Il primo suona come una provocazione durissima: perdere tutti i propri affetti più cari e anche la propria vita, altrimenti non si è degni del Signore. Non amare padre, madre o figlio più di Lui significa non mettere nulla davanti a Dio. Come già diceva il Deuteronomio: «Qualora il tuo fratello o il figlio o la figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che è come te stesso ti istighi in segreto, dicendo: "Andiamo, serviamo altri dei", tu non dargli retta, non ascoltarlo» (Dt 13,7-9). È il coraggio di scegliere il Signore; e perché possa realizzarsi la scelta, ci vuole il coraggio di lasciare non mettendo nulla davanti a Dio. Perché Dio è l'unico che non sottrae, ma aggiunge, in Lui si recupera e si vive pienamente, come dono, ogni relazione significativa.
Oggi si sta perdendo, nelle persone, questo coraggio di lasciare. Non si vuole "mollare" nulla, non ci si vuole impedire alcuna possibilità, e così non si sceglie niente. È un modo di vivere che è simile all'atteggiamento degli adolescenti, non delle persone mature. È come non voler crescere rimanendo dipendenti, e così non si diventa donne e uomini maturi, capaci di assumere le proprie responsabilità.
Invece, proprio il verbo lasciare è, secondo la Bibbia, quello più determinante per arrivare all'unione: «Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre, si unirà alla sua donna e saranno una carne sola» (Gen 2,24). Dunque se non c'è questo abbandono non si diventa adulti. Certamente nel lasciare c'è il dolore, ma è come quello di una potatura: se non tagli, la vita produttiva non può crescere, e non può nascere un futuro: si produce una ripetizione, ma non un futuro. Per questo Gesù dice che bisogna essere disposti a lasciare, a tagliare il cordone ombelicale. È forse l'immagine del bambino appena nato ancora legato a sua madre che ci può spiegare meglio il detto di Gesù. Il Vangelo non esige di abbandonare i nostri rapporti di affetto, di sangue o di amicizia, ma di lasciare quei rapporti che ci legano in modo ossessivo, soffocante, che impediscono la libertà e l'autonomia, come il cordone ombelicale. Sono i rapporti iperprotettivi, possessivi, o proiettivi (nei figli, di qualcosa che si è o si voleva diventare). Sono rapporti che non permettono di crescere, di andare là dove uno deve andare per realizzare la sua personale chiamata alla vita.
In fin dei conti, lo ha fatto anche Gesù. Quando aveva dodici anni, ha lasciato i suoi genitori Maria e Giuseppe per essere là dove avrebbe trovato pienamente se stesso: «Non sapevate che devo essere presso il Padre mio?» (Lc 2,49). In definitiva, abbandonare è in vista di un incontro, permette un incontro, come quello di un uomo che lascia padre e madre per unirsi alla sua donna ed essere una carne sola.
L'altro verbo, è «accogliere», che troviamo nella seconda parte del brano. È un dare ospitalità, un accogliere che determina l'accoglienza di Dio, in Gesù. Anzi, Gesù rinvia alla definitività dell'accoglienza addirittura del Padre: non in gesti ieratici, mistici o intellettualistici, ma nelle umanissime e ordinarie parole e azioni che sono dovute ad un ospite.
E la caratteristica fondamentale della vera accoglienza è la gratuità. Si accoglie non perché se ne avrà un vantaggio, ma semplicemente perché è lui: un uomo o una donna che incrociano il nostro cammino, in quanto tali, da riconoscere come "inviati" da Dio.
Accogliere, senza negarsi dietro scuse che non possiamo risolvere noi i problemi: se puoi dare un bicchiere d'acqua, dai quello, anche se è solo un po' di acqua fresca. Un accogliere che non può essere soltanto esteriore, ma si carica di grande valore simbolico: è fare spazio all'altro in sé, e dirgli, con semplicità, che è importante per noi stessi. Per questo oggi domina la logica e la prassi della non-accoglienza: perché ciascuno preferisce rimanere chiuso in se stesso e non vuole interessarsi degli altri. Sembra essere questa la via della felicità personale: ma è sbagliata e perdente.
Per la Bibbia, se accogli il viandante e il povero, accogli Dio stesso. E tale accoglienza dona fecondità di vita. Eliseo - uomo di Dio che la Sunammita accoglie - le promette di avere un figlio; così come l'accoglienza dei tre viandanti da parte di Abramo fa sì che Sara, sua moglie, possa avere un figlio (cfr. Gen 18,1-14). Così anche noi, se saremo accoglienti nella nostra vita.
(Alberto Vianello)
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