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XV Domenica PA - Mt 13, 1-23

Non ci si deve abbattere, l'importante è non demordere e continuare nella coerenza ad annunciare sperando al di là di ogni umana speranza (Rm 4,18) senza preoccuparsi del raccolto.



Pur saltando un intero capitolo, l’Evangelo che la Liturgia ci propone oggi si pone in perfetta continuità con il messaggio della scorsa domenica nella quale abbiamo visto un Gesù inizialmente sconfortato perché il suo messaggio non era stato accolto come lui si aspettava. Eppure aveva parlato chiaramente e i segni compiuti avrebbero dovuto accreditarlo con maggiore forza. 

Però subito gli sovviene che sopra di tutto c’è il Padre, quindi lo loda ed invita nuovamente tutti, soprattutto gli sfiduciati e gli affaticati, ad andare ed affiancarsi a lui perché il suo “giogo è leggero” e si adatta alle forze che ciascuno ha nella certezza che il Padre non chiede mai cose superiori alle forze che uno ha. Inoltre invita ad imitarlo: lui non si arrende, non si rassegna ma va avanti nonostante tutto nel servizio agli altri; questo significa essere miti ed umili, non altro.


Oggi l’Evangelo ci mostra come tutto abbia portato Gesù cambiare passo, cioè a non proclamare più direttamente il suo messaggio, ma cercare di farlo passare attraverso degli esempi concreti, vicini all’esperienza delle persone del suo tempo: ecco allora le “parabole” come quella di oggi dove c’è un seminatore “disattento” in quanto, in un territorio dove ci sono più sassi che terra, non guarda dove sparge la semente che allora cade sullo sterrato della strada, piuttosto che tra i sassi, oppure tra i rovi e, in parte, anche in una terra fertile. 

In realtà il primo messaggio che Gesù vuole dare ai suoi è quello di non abbattersi per gli scarsi risultati che può dare il loro lavoro di missionari: è capitato a lui, lo hanno sperimentato assieme, capiterà ovviamente anche a loro quando lui non ci sarà più fisicamente ed anche a noi. La cosa importante è non demordere e continuare nella coerenza ad annunciare sperando al di là di ogni umana speranza (Rm 4,18) senza preoccuparsi del raccolto, sapendo che facilmente chi raccoglierà non sarà chi semina. 

Anche in questo nostro tempo, nel quale pare essere non più nel meriggio ma già nel pomeriggio inoltrato del cristianesimo (il tempo della maturità secondo la metafora di Halìc mutuata da quella sulla vita di Carl Gustav Jung), non si deve smettere di seminare; bisogna però fare i conti con una realtà rapidamente mutevole e incarnarsi in questa, cambiando le modalità di annuncio, di semina della Parola. Il risultato non dipende dalla qualità della semente (dalla Parola), né dal seminatore, piuttosto dal terreno nel quale cade. È necessario avere fiducia in quello che il Padre afferma attraverso Isaia (55,11) “così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”. Realtà che anche in Genesi appare chiaramente quando il Signore dice una cosa e questa immediatamente prende forma: “Sia la luce e la luce fu”, perché la sua parola contiene in sé una energia creatrice che, quando incontra il terreno adatto, sviluppa tutte le sue potenzialità. Non sta però a noi decidere quale questo sia perché il Signore può far fiorire credenti anche dalle pietre (Mt 3,9; Is 51,1-2) e i tempi nei quali le sementi germogliano non sono da noi determinabili né conoscibili. Volentieri rimangono latenti per sbocciare quando meno ce se lo aspetta, quando si pensava fosse tutto andato perduto. Nel Vangelo di Marco (4,26) Gesù fa l’esempio del seminatore che “getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa”, ma cresce …

D’altra parte l’annuncio non ha nulla a che vedere con l’indottrinamento. Quest’ultimo è come un vestito preconfezionato calato dall’alto, può anche vestire bene ma non è stato scelto, si porta ma rimane estraneo e se si può si smette volentieri. L’annuncio propone, desidera far riflettere, far risuonare dentro l’interlocutore il suo messaggio, lasciando il tempo necessario perché possa far emergere l’incontro con il Signore. Il racconto, la parabola, invita a pensare; non si comprende immediatamente, a volte non lascia tranquilli; è un regalo ben incartato, legato, infiocchettato che, a volte, non si scarta nemmeno immediatamente …

***


Il racconto di Matteo oggi inizia dicendoci che attorno a Gesù era in riva al mare e si radunò molta folla tanto che dovette salire su di una barca e da lì racconta sette parabole a coloro che rimangono sulla battigia, la prima è quella del seminatore. È un linguaggio simbolico: il mare è da attraversare per andare altrove come dall’Egitto verso la terra promessa, mentre la barca è una delle rappresentazioni della comunità ecclesiale. Oggi su quella barca c’è solo Gesù che racconta le parabole (tutta la folla, noi tra questa, deve ancora scegliere se salirci o meno) … poi gli si avvicinano i discepoli per chiedergli la ragione del suo cambio di passo e lui dà una risposta a noi non immediatamente comprensibile: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma loro non è dato”.

Prima di tutto è necessario sottolineare come “i misteri del regno dei cieli” sono un dono e i discepoli lo hanno già accolto e fatto esperienza (“conoscere” nel linguaggio semitico significa proprio questo), altri no. C’è da meravigliarsi? No, sta nella logica delle cose e lo spiega con le parole di Isaia: “il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca”. Poi prosegue chiarendo a loro la parabola anche se loro non l’avevano chiesto. Qui bisogna fare attenzione a non immedesimarsi con un solo terreno: tutti noi lo siamo contemporaneamente tutti e quattro. La strada battuta è il modo rassicurante di ragionare della realtà sociale nella quale viviamo e che condividiamo. A volte possiamo anche infiammarci facendo delle esperienze emotive come raduni, manifestazioni o anche celebrazioni commoventi: ma è il terreno sassoso che non ha terra dove radicare l’eccitazione del momento. La nostra vita è poi generalmente frenetica, ricca di impegni, di cose da fare che spesso raccontiamo come delle spine che non ci lasciano in pace. Ma in ciascuno c’è anche della “bella” (e non buona come viene tradotto) terra nella quale prima o poi uno dei semi arriva e porta il frutto adeguato al campo nel modo nel quale lo abbiamo preparato nel silenzio della preghiera, del confronto con il Signore e la sua Parola.

(BiGio)

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