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I laureati veneti in fuga sono cresciuti del 517% «All’estero più soldi e welfare»

A volte ritornano (almeno alcuni). Peccato che siano decisamente molti di più quelli che se ne vanno, e spesso con un biglietto di sola andata: passano gli anni, eppure la triste problematica della «fuga dei cervelli» continua ad attanagliare l’intero Stivale, Veneto compreso.



Anzi, soprattutto - o quasi - la nostra Regione, la seconda peggiore dopo la Lombardia in quanto a partenze direzione estero da parte dei laureati tra i 25 e i 39 anni: gli espatriati sono infatti aumentati del 517%, passando dai 427 del 2011 ai 1.773 del 2021 (ma nel 2020 furono ben 2.261), un dato ben più alto della media nazionale, che si «ferma» al 400% nel medesimo periodo. A provare a capire le motivazioni che portano i nuovi - e non - dottori a lasciare sia il Veneto che l’Italia ci ha pensato la Direzione studi e ricerche di Intesa Sanpaolo con un’indagine condotta da Anna Maria Moressa, la quale ha presentato ieri i risultati in occasione di un incontro organizzato nell’Aula Magna di Palazzo Bo, sede istituzionale dell’Università di Padova. 

E sono risultati emblematici di una tematica di difficile soluzione, almeno a giudicare dalle risposte fornite dai 139 italiani che lavorano o studiano all’estero e che sono stati interpellati per l’occasione: «Il primo dato che balza all’occhio - evidenzia la dottoressa Moressa - è che il 69% dei laureati che si trasferiscono in un Paese straniero ha preso quale voto finale dal 106 in su. Sempre il 69% di chi va all’estero, poi, ha avuto una precedente esperienza di studio fuori dall’Italia, fattore tutt’altro che di poco conto. Se poi vogliamo concentrarci sui laureati Stem (acronimo inglese per scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, ndr), che nella sola Università di Padova sono quasi raddoppiati negli ultimi dieci anni, notiamo che resterebbero anche nella loro provincia di residenza, ma che cercano un lavoro che possa consentire loro di crescere professionalmente e di fare carriera, il tutto senza dimenticare l’aspetto economico». 

Un «prima» che viene confermato anche «dopo», come sottolinea Anna Maria Moressa: «Il 70% di chi possiede una laurea in una disciplina Stem e va a lavorare all’estero ha un contratto a tempo indeterminato e svolge prevalentemente funzioni altamente professionali di ricerca e sviluppo. Non solo: fuori dall’Italia questi laureati si sentono maggiormente remunerati e valorizzati, inoltre per loro le aziende straniere sono più innovative a livello tecnologico e sono convinti di trovare un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata potendo godere anche di un orario più flessibile. Quali sono le motivazioni che li riporterebbero in Italia? Al primo posto c’è la richiesta di uno stipendio più alto di quello che attualmente guadagnano, seguito dal desiderio di fare carriera e da un aspetto “umano” quale la possibilità di riavvicinarsi alla famiglia». 

Viene quindi richiamata l’attenzione delle imprese venete, anche se Massimo Pavin, presidente della Sirmax (azienda di Cittadella, nel Padovano, leader nella ricerca, sviluppo e produzione di materiali termoplastici) prova a invertire il paradigma, fornendo una versione differente della questione: «Dico senza timore di smentita che non avrei mai potuto aprire le mie filiali all’estero senza avere al seguito i miei connazionali: prendo più di 100 voli all’anno e quindi conosco molte realtà, e vi posso assicurare che i nostri laureati hanno una qualità a livello di preparazione che non trovi nel resto del mondo. Peraltro in questi ultimi anni come azienda stiamo iniziando ad avere un giro di ritorno di lavoratori che magari sono stati in un altro Paese anche per dieci anni e che grazie alle conoscenze accumulate tornano con una marcia in più. Personalmente sono favorevole a chi fa un’esperienza di lavoro all’estero, ma sono convinto che poi la gran parte voglia ritornare perché non esiste posto più bello dell’Italia in cui vivere».

(da CorSera 31/1/24)

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