II Domenica di Quaresima - Mc 9,2-10, la Trasfigurazione

C'è una faticosa salita da fare ed alla fine ci si trova soli e, a guardare dall'alto, la prospettiva cambia tutta: ciò che sembrava una sconfitta appare essere la pienezza dell'essere. C'è solo una condizione, un imperativo, non una imposizione ma una necessità.



La Liturgia domenica scorsa ci ha fatto comprendere con l’Evangelo delle “tentazioni” che Gesù ha vissuto tutte le prove, tutte le difficoltà che anche noi incontriamo che rendono più solida, più matura la nostra fede e la nostra adesione nella sua sequela. Oggi, nella contemplazione della Trasfigurazione, ci propone l’altra faccia della medaglia, del cammino che siamo chiamati a fare per giungere a comprendere pienamente la sua identità.

 

Sei giorni dopo” inizia così l’Evangelo di oggi e, se da una parte ci rimanda a verificare cosa sia accaduto sei giorni prima (la confessione di fede di Pietro alla domanda di Gesù: “La gente chi dice io siaE voi chi dite io sia?”), dall’altra il sesto giorno è quello della creazione dell’uomo che Dio afferma d’essere cosa “molto buona”, cioè secondo la pienezza della sua volontà d’amore. 

Alla fatica del cammino di ogni giorno, corrisponde allora ciò a cui è chiamata essere l’umanità secondo il progetto del Padre. È quanto ha vissuto Gesù ed è il cammino che siamo chiamati a fare nostro seguendo le sue orme. L’essere suoi discepoli non risparmia alcuna fatica; è una chiamata a mettere a disposizione la nostra vita fino a rinunciare all’identità che ci propone il mondo, per assumere quella del dono totale nel servizio che Lui ci propone.

È un cammino in salita al quale siamo chiamati da Gesù come lo furono Pietro, Giacomo e Giovanni: non tre privilegiati immagine della fatica (la salita) della sequela da imparare. Poco prima Pietro aveva contraddetto Gesù quando aveva annunciato che doveva essere rifiutato e venire ucciso: non era possibile che questo accadesse al Messia atteso e da lui riconosciuto come tale. Lo aveva fatto Pietro prendendo “in disparte” Gesù (Mc 8,32b) ed ora è Gesù che prende “in disparte” i tre discepoliloro soli”. Non può essere un caso il ripetersi di questa sottolineatura, è invece una indicazione precisa: se desideriamo comprendere Gesù è necessario che ci lasciamo portare in disparte da lui e rimanere noi da soli con lui, “cuore a cuore”. È quanto ci ha detto l’Evangelo di domenica scorsa con Gesù che, prima di iniziare la sua missione tra gli uomini, è in disparte, da solo nel deserto. Più volte ci viene presentata questa sua prassi come modello da imitare: l’azione va sempre preceduta da un momento di confronto con il Padre che avviene innanzitutto come “ascolto” di parole che si trovano nella Scrittura ed è la frequentazione di questa che ci fa capire cosa lui desideri da noi.

Se guardiamo la vita di Gesù nella “pianura del mondo” vediamo che alla fine ha perso tutte le sue battaglie; ma se facciamo la fatica di seguirlo, di salire con lui in disparte, cambia tutta la prospettiva: il servo sofferente diventa colui che manifesta tutto il suo amore. L’uomo sconfitto diventa l’uomo come il Padre l’ha pensato e creato a sua immagine e somiglianza, capace di vivere nelle miserie quotidiane guardando il bisogno dell’altro, tendendo la mano, aiutando a risollevarsi, non semplicemente guarendo bensì purificando dalle sue “malattie” che sono quegli “spiriti impuri” che ci legano e distorcono da come Dio ci ha creato in origine.

È questo quell’essere luminoso e l’avere delle vesti bianchissime “che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”: è opera del Signore, non dell’uomo ed è per questo che al battesimo veniamo rivestiti di una veste candida perché veniamo riportati all’origine, prima che la libertà donata ci porti a contraddire l’immagine d’amore del Padre.

E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù” non è un errore grammaticale quel “apparve” al singolare, è la Scrittura intera che si fa presente e conversa con Gesù ed è quello che veniamo invitati a fare anche noi nella preghiera che, vale la pena di ripeterlo, non è la ripetizione di formule, la richiesta di favori, il parlare a noi stessi. È prima di tutto ascolto della Scrittura e poi dialogo su quello che abbiamo ascoltato e ci dice oggi a noi come operare, nella concreta realtà che stiamo vivendo e che muta sempre. È per questo che S. Gregorio Magno diceva che la Scrittura “cresce con il suo lettore”: è un cammino di maturazione verso la pienezza che ci viene proposto di fare.

Certo, ci può spaventare perché è sempre esigente nei nostri confronti e sarebbe bello poter fermare il momento e non scendere a valle, ma è necessario farlo dopo aver appreso a ragionare come Dio per portare la sua “luce” nelle difficoltà della vita. Quella nube che scende e avvolge i discepoli è la presenza del Signore che si fa vicino, ci affianca e non ci lascia soli mai in nessun istante, in nessuna situazione: “Sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei giorni”. C’è una condizione, un imperativo: “Ascoltatelo”. Non una imposizione ma una necessità come lo è una fonte di acqua fresca zampillante in un deserto assolato senza orizzonti. In ebraico ascoltare è Shemà e questa lingua non ha astrattismi, quindi non è un semplice invito a porre attenzione a quanto ci dirà, ma è un dare la propria adesione concreta a quanto ci invita a fare. Non per nulla in Es 24,7 il popolo d’Israele promette di fare la volontà di Dio prima ancora di averla ascoltata.

(BiGio)

 

 

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