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Domenica XXI PA - Lc 13,22-30

Dio non è un voltagabbana e l'opposizione non è tra genti ed ebrei, ma tra obbedienti e disubbidienti, quale che sia la loro origine etnica.



Può a prima vista sconcertare l’Evangelo che la Liturgia ci propone oggi nel seguire Gesù verso Gerusalemme, nell’essere alla sua sequela, nella difficoltà di scelte da fare secondo quello che è giusto, non secondo gli uomini, ma secondo il Padre.

Oggi Gesù pare aver abbandonato l’annuncio della Misericordia e della Salvezza. Sconcerta perché arriva ad allontanare e ad affermare di non conoscere quelli che certamente invece conosceva bene. Ma, se si riprende il messaggio al centro di domenica scorsa, si comprende che Luca desidera farci riflettere sulla posta in gioco che ruota attorno al rapporto tra il tempo escatologico (la fine del tempo) e quello attuale, nel quale di giorno in giorno, di ora in ora, ciascuno è chiamato a scegliere da che parte stare.

 

La domanda che gli pone “un tale” non è banale e si pone al centro del dibattito che dall’epoca di Gesù risuona ininterrottamente fino ai nostri giorni: per chi è la salvezza? Non dimentichiamo che fino al Concilio Vaticano II e, purtroppo, si sente affermare ancora oggi, si diceva che non c’era salvezza al di fuori della Chiesa.

L’immagine che dà Gesù, coinvolgendo anche noi in quel “voi” che sono i ritardatari che bussano quando la porta oramai è stata chiusa, è chiara: “Non so da dove siete; via da me, voi tutti, operatori di in-giustizia!” (e non di “iniquità”). Come le ultime domeniche, torna di nuovo l’affermazione che l’impegno del discepolo è compiere la giustizia non secondo i nostri occhi (quella sociale, quella delle opere), ma quella che corrisponde alla volontà di Dio. Non è certamente facile da comprendere, per questo è simile ad una “porta stretta”. L’individuarla ed il varcarla significa superare l’ostacolo della nostra personale volontà. È quello che ha fatto Gesù in quel momento decisivo che è stato l’orto degli ulivi, quando ha prima chiesto al Padre di sollevarlo dal calice che aveva davanti ma poi, fidandosi, si è abbandonato alla Sua volontà, rinunciando alla sua. 

 

Per noi c’è un pericolo da evitare. Il fare la Sua volontà e non la nostra, non è il cercare di mettere nero su bianco ciò che Dio vuole cosicché lo possiamo mettere in pratica e, al contrario, ciò che non vuole così possiamo tentare di astenercene. Con queste modalità ci troveremo davanti a due rigide liste di precetti da fare o da non fare, correndo il pericolo di escludere Dio dalla nostra vita perché in questo modo non avremmo più bisogno di rapportarci con Lui. Pretendere di sapere ciò che Dio vuole giorno dopo giorno da noi, è in sostanza poter fare a meno di lui. Il Decalogo non è questo e non lo sono nemmeno i 613 precetti derivati da questo, anche se siamo tentati di pensarlo e magari ci viene anche oggi detto. Ma è solo una comodità nostra, che travisa erroneamente ciò che regola il rapporto tra Dio e i suoi popoli (al plurale!). Sono invece le modalità per rimanere in ogni istante della nostra vita in relazione con Lui per cercare, momento per momento, di scegliere e fare la Sua volontà e la Sua giustizia.

Difficile? Certo e, forse, non ci rimane che riconoscere la nostra incapacità di comprendere ciò che Dio vuole da noi. Ma, forse, questo non è essenziale. Se davvero è nostra volontà profonda cercare di fare ciò che giusto e gradito a Lui (come affermiamo in ogni Eucaristia), Egli troverà il modo, forse non di rivelarcela ma, cosa ben più importante, di farcela fare; magari anche senza che ce ne accorgiamo, conformemente alla promessa che ci ha fatto per bocca di Ezechiele (36,26-27): “Io vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme”.

 

Quindi, quello che Gesù ci prospetta nell’Evangelo di oggi, è una lotta contro noi stessi e lui non riconoscerà quelli che fanno la propria volontà. Inutilmente diranno “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”, perché l’ha detto chiaro chi sono quelli che lui riconosce: “Coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 8,21). 

Per tutti quelli che rimarranno, nonostante le loro preghiere e le loro insistenze, non solo fuori ma ben più duramente “cacciati fuori”, “ci sarà solo pianto e stridore di denti” nel vedere “Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti” assieme a tutti quelli che “siederanno a mensa nel Regno di Dio” giunti da “oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno”. 

Questo non perché a un tratto Dio preferisca le “genti” al popolo da lui scelto, ma perché accoglie quelli che, anche se non provengono dal popolo scelto e amato, mettono in pratica le sue Parole, facendo quello che è giusto non secondo gli uomini, ma secondo la sua volontà. L’opposizione non è tra genti ed ebrei, ma tra obbedienti e disubbidienti, quale che sia la loro origine etnica. È sempre la questione dell’accettare e di vivere secondo le leggi del Signore e questo accade in ogni cuore non di pietra (cioè che guarda solo sé stesso) ma di carne, capace cioè di fremere nel profondo incontrando il bisogno dell’altro, di commuoversi, chinarsi su di lui, ungere le sue ferite e accompagnarlo in un posto sicuro. È questo, non altro, che apre le porte della Casa dove si parteciperà al banchetto escatologico nel quale il Signore si cingerà le vesti e ci servirà.

 

(BiGio)

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