In questi anni papa Francesco ha chiamato e richiamo continuamente la Chiesa a riflettere su sé stessa prendendo atto della realtà nella quale sta camminando, chiedendole di essere all’interno della società e non di fianco o, peggio, separata da essa, come rinchiusa in una specie di bolla di cristallo. Il mandato che ha ricevuto dal Conclave, di riportare l’intera Chiesa a un modo di vivere sinodale, lo sta realizzando non solo impegnando tutte le singole realtà ecclesiali a camminare, non solo all’interno delle parrocchie e delle diocesi ma assieme con e nel mondo, ma pure intervenendo ripetutamente con dei “Motu proprio” anche sul piano della ministerialità.
Ed è proprio su questo tema che, in controluce, l’Evangelo di oggi alza il velo sulla situazione della Comunità di Luca e l’emergere al suo interno delle prime domande in questo ambito.
Il Risorto, come il padrone della parabola che dice Gesù dopo aver riaffermato la questione posta la scorsa domenica sul senso dell’accumulare tesori e beni, è partito per partecipare ad una festa di nozze e non si sa quando tornerà.
Alla Comunità non rimane che attenderlo ma “con i fianchi cinti e le lampade accese”. Non sono indicazioni coreografiche, ma elementi che evocano l’uscita dall’Egitto e il suo memoriale che la rende attuale anno dopo anno; le lampade accese evocano anche la parabola delle 10 vergini che con le loro lampade attendono lo sposo (Mt25,1-13). È questo atteggiamento che ci assicura che saremo pronti ad aprigli la porta appena busserà.
“Ecco, io sto alla porta e busso” ci assicura l’Apocalisse (3,20). Se si sarà pronti ad aprirgli, come nel racconto dell’Ultima Cena in Giovanni, i ruoli si rovesceranno: il padrone “si cingerà i fianchi, li farà coricare a tavola e passerà a servirli”. Se invece i servi (noi) non saremo pronti ad aprirgli perché sonnolenti o addormentati, il padrone si trasformerà in un ladro irrompendo e scassinando la casa senza trovare alcuna resistenza.
In ogni caso il ritorno del Signore produrrà un profondo cambiamento, un rovesciamento totale della situazione che troverà e che dipende totalmente da noi se sarà positivo o negativo, dal nostro vigilare o dal nostro vivere in un tran-tran per la quiete di tutti.
Noi abbiamo perso quasi totalmente la tensione “escatologica” che è stata alla base del nascere del cristianesimo. Non ci pensiamo più, tanto meno risuona l’invocazione “Maranatha – Vieni Signore Gesù”, non nelle nostre liturgie, non nelle nostre preghiere personali. Anzi, la esorcizziamo con grande facilità pensando più al giudizio che alla misericordia del Signore.
Pietro desidera capire se, quella duplice possibilità delineata nella parabola dal Signore, riguarda tutti o solo i discepoli. Gesù risponde proponendone un’altra con al centro due possibili opposti comportamenti di un amministratore che, comunque, rimane un “servo” del padrone al pari di tutti gli altri con il compito di curare una giusta e regolare distribuzione di cibo ai domestici durante la sua assenza. Se è saggio e fedele, garantisce ed espleta correttamente in modo sensato quanto gli è stato chiesto per il benessere di coloro che gli sono stati affidati e, al ritorno del padrone, questo gli affiderà tutti i suoi beni e i suoi averi. Al contrario, se avrà abusato del suo compito vivendo nella dissolutezza e maltrattando gli altri domestici, sarà non solo punito con rigore (letteralmente “fatto a pezzi”), ma anche gli verrà assegnata “la sorte (non il “posto”) degli infedeli”. Subisce così un doppio castigo: quello più immediato sul piano umano ed un secondo al momento del giudizio divino; mentre l’amministratore fedele, oltre al premio di vedersi affidati tutti i beni dal padrone, viene anche chiamato “beato”.
Gesù così non opera una distinzione tra chi dovrebbe vigilare e chi non vi è tenuto; tutti sono e rimangono “servi”, tutti devono vegliare in attesa del ritorno del padrone continuando a svolgere diligentemente i propri compiti. Fra di loro però uno è stato chiamato a svolgere un ruolo particolare, non a fare il capo, dirigere o spadroneggiare, bensì per servire i suoi compagni, assicurando “loro la razione di cibo a suo tempo”.
Fa però anche una precisazione sulla vigilanza ed è tra coloro, i credenti, che conoscono la volontà del padrone e coloro che non la sanno. Ambedue possono comportarsi non agendo secondo la sua volontà. Il discepolo però è senza scuse e, per questo, la sua punizione sarà più dura.
Non c’è la volontà di spaventare nessuno, ma viene sottolineato con forza che ai discepoli (a noi) è stato dato un dono (il conoscere la volontà dei Signore) che è anche un compito. A maggiore fiducia corrisponde maggiore responsabilità e quindi, eventualmente, maggiore colpevolezza. Quindi l’attenzione cade su quanto oggi siamo chiamati a fare e l’invito è di rimanere sempre vigilanti e pronti ad aprirgli la porta.
In controluce a quest’ultima sottolineatura si può anche leggere la parabola dei talenti (Mt 25,15ss). Qui mi permetto un ricordo personale. In un colloquio con il monaco Makarios del monastero Iviron sul monte Athos uscì questa parabola e, alla mia domanda di come possiamo sapere quanti siano i talenti che ci sono stati affidati dal Signore, la sua risposta fu disarmante: non lo possiamo sapere, abbiamo un’unica possibilità, pensare di averne ricevuti cinque (il massimo) e farli fruttare il più possibile.
Riprendendo come è stato iniziato questo approfondimento dell’Evangelo di oggi, non possiamo non riflettere con chiarezza sul come vivere la ministerialità alla quale ci chiama Gesù. Nelle Comunità siamo tutti fratelli, tutti servi del Signore che operano in attesa della sua venuta definitiva secondo il doppio comandamento dell’amore che ci è stato presentato nelle domeniche precedenti. Questo è sfociato nell’insegnamento della preghiera per entrare e condividere il rapporto tra Gesù e il Padre, per essere le sue mani in questa nostra realtà finché egli venga.
Certo, ognuno di noi ha doni diversi che significano ruoli e compiti diversi all’interno delle Comunità concrete. Ma troppo spesso dimentichiamo che siamo tutti fratelli e servi dell’unico Signore. Abbiamo sacralizzato alcuni di noi svilendo un ruolo di servizio e trasformandolo in uno di potere. Tutti siamo responsabili e possiamo solo lo sperare di non “essere fatti a pezzi” ed avere la medesima “sorte degli infedeli” sui quali si erge il canto funebre.
Makarios aveva aggiunto che dobbiamo pensare che l’inferno è per noi ma su tutto c’è la misericordia del Padre grazie a Gesù.
(BiGio)
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