Una porta di casa stretta e una sala da pranzo che ha le dimensioni del mondo: su questo paradosso è costruito il vangelo. C’è una lotta per entrare attraverso una porta stretta e un banchetto a cui non solo siedono i patriarchi ma le genti, senza alcuna discriminazione etnica né religiosa. Come comprendere tale tensione?
Troviamo una luce nella descrizione del giudizio sotto forma di un padrone di casa che si sveglia nel cuore della notte a causa dei colpi contro la porta e dichiara a quelli di fuori di non conoscere da dove vengono, pur affermando questi di aver vissuto con lui e di averlo ascoltato. Il padrone li chiama “operatori di ingiustizia” (v. 27). Il criterio di ingresso è legato alla giustizia. Che cosa significa?
Il termine appare in due parabole, quella dell’amministratore ingiusto (cf. Lc 16,1-8) e quella del giudice ingiusto (cf. Lc 18,1-8). Nella prima l’amministratore non è come l’amministratore degno di fiducia e sapiente di un’altra parabola che sa dare la porzione di cibo adatta a ciascuno al momento giusto perché viva (cf. Lc 12,42-44), ma dilapida i beni del padrone. Nella seconda il giudice è ingiusto perché non ascolta la richiesta di giustizia da parte di una vedova. L’ingiustizia riguarda la relazione con l’altro, e con l’altro in stato di bisogno.
Capiamo allora l’imperativo “lottate!” (v. 14; non “sforzatevi” come viene tradotto!). C’è da combattere una lotta, quella dell’amore. In Giovanni Gesù dice di essere la porta attraverso cui passare per essere salvati (cf. Gv 10,7). Gesù è anche il seme che caduto a terra muore e porta molto frutto (cf. Gv 12,24). Allora la porta stretta è il mistero pasquale di Gesù, il suo deporre per amore la vita sulla croce per ritrovarla donata dal Padre. Si tratta dunque di partecipare alla morte di Gesù, di unirci al suo amare i discepoli e le discepole sino alla fine per condividere la sua resurrezione. Si lotta con la forza che viene da Cristo e che agisce in noi. Abbiamo le coordinate della lotta spirituale come lotta contro le realtà che in noi si oppongono alla logica dell’amore e che ci chiudono in noi stessi, rendendoci autocentrati. Impegno soggettivo e dono della grazia sono i due elementi di fondo della lotta della fede.
Perciò il sedere alla tavola imbandita del Regno non è più legato all’appartenenza etnica o religiosa. Non va in maniera automatica. La porta è stretta non per cattiveria o selezione ma perché per entrare bisogna svestirsi di molte cose. La lotta spirituale è un combattimento in cui si impara a spogliarsi, a togliere le tante macerie che ci ingombrano e impediscono il contatto con le nostre profondità e con la presenza del Cristo amante in noi. C’è una porta stretta, ma la sala del banchetto ha le dimensioni del mondo e c’è posto per tutti e tutte. Amare richiede di denudarsi degli abiti che ingombrano per esporsi con il corpo come il Cristo nudo sulla croce.
Perciò essere ultimi e primi non è più questione cronologica né di elezione etnica o religiosa, ma si lega alla disponibilità di passare per la porta stretta della lotta contro gli atteggiamenti che vogliono derubarci dell’amore.
(fr. Davide di Bose)
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