È già iniziata la stagione delle "grandi rimozioni". Per quanto sia comprensibile il desiderio di lasciarsi alle spalle le difficoltà della pandemia, il rifiuto di mettere a frutto quanto appreso negli ultimi due lunghi anni apre scenari non rassicuranti per il mondo del lavoro. Si assiste infatti a un profondo radicalismo delle posizioni in fatto di flessibilità spazio-temporale e schemi ibridi. O tutto o niente. Paladini del lavoro agile contro fanatici della timbratura, in un estenuante gioco delle parti. Non si tiene però conto di un dato imprescindibile: lo stato di eccezione e la complessità che ne è scaturita hanno stravolto il modo in cui intendiamo il lavoro.
Porzioni consistenti della forza lavoro si apprestano a esercitare un’intransigenza, in parte inedita, che va dritta al cuore della questione. La ricerca di un lavoro di qualità – nozione “multidimensionale” da interpretare anche in relazione alle esigenze di vita delle persone – assume un valore irrinunciabile, tanto da generare fenomeni di dimissioni di massa, che si registrano anche in Europa, seppure con una consistenza più limitata rispetto al caso americano.
La strada più immediata per restituire senso e valore al lavoro passa attraverso l’accrescimento dei margini di autonomia e scelta, specie in un momento in cui il potere delle tecnologie diventa sempre più invasivo. Il confronto politico-sindacale promette di restare acceso, almeno fino a quando le vuote retoriche del soluzionismo digitale non lasceranno il passo a modelli professionali in grado di emancipare, ripagare e soddisfare i lavoratori. Va da sé che tali pratiche non sono da sole in grado di curare i mali di un mercato del lavoro in affanno, ma di certo contribuiscono a eliminare alcune tra le più tossiche scorie di un approccio manageriale fortemente arretrato.
Su questo dibattito si innesta la riflessione, ormai su scala europea, sulle potenzialità del cosiddetto south working ....
L'intero articolo di Antonio Aloisi Luisa Corazza continua a questo link:
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