Questa riflessione di Saverio Catellani su La Scintilla di Carpi può essere estesa a tutte le realtà ecclesiale
Le grandi Istituzioni, siano esse economiche, politiche o religiose, fanno grande fatica a riformarsi e il più delle volte si limitano a seguire il flusso della corrente attuando piccole e faticose correzioni di rotta, peraltro frutto più di spinte esogene che endogene. La Chiesa ha dalla sua parte l’azione dello Spirito che dovrebbe aiutarla a fare scelte coraggiose, ma occorrono orecchie disposte ad ascoltarlo. La mia sensazione al momento è quella che si preferisca il piccolo cabotaggio, nel senso che non si intravedono all’orizzonte grandi temi o afflati.
Per esempio, una significativa riforma liturgica come quella nata dal Concilio (Messa nelle lingue nazionali, diversa disposizione dell’altare, introduzione di nuovi canti…) che ha toccato in modo capillare ogni singola comunità, è una cosa che oggi non è nemmeno pensabile. C’è stata una prudenza quasi ventennale per modificare due parole nel Padre Nostro, figuriamoci rimettere mano alla celebrazione principale della comunità cristiana. Eppure se ne sentirebbe proprio il bisogno nelle nostre chiese che riescono a mimetizzare i banchi vuoti soltanto grazie al distanziamento.
È stato grazie allo Spirito accolto nel Concilio se alla Chiesa è riuscito il salto nel nuovo millennio, perché se oggi la Messa fosse ancora in latino, quanti di noi si alzerebbero la domenica per partecipare al rito? Una minoranza della minoranza. Qualche ottimista ne parlerebbe come di quel piccolo seme che con la sua testimonianza genera un albero che darà molto frutto, ma in realtà la Storia ci insegna che quel seme muore soffocato dalla gramigna e non se ne parla più.
Le ricerche indicano che la spiritualità (anche cristiana) di questi tempi è connotata da un elevato tasso di individualismo e anche di “mistica” nel senso in cui la intendeva il teologo Karl Rahner, cioè che necessita di una relazione personale e immediata con Dio. Questa sensibilità cozza contro l’aspetto normativo e dottrinale su cui nel tempo si è focalizzata la Chiesa e che fa sempre meno presa sul popolo di Dio, in particolare se la ragion d’essere di certe indicazioni affonda le radici in un periodo storico lontano, legato a un pensiero che si ritiene superato. In soldoni, se la celebrazione domenicale è noiosa, la gente smette di frequentarla anche se il catechismo, con dovizia di riferimenti dotti, scrive che si tratta di peccato mortale.
Come immagino allora la Chiesa nel 2050? Come un ghiacciaio in ritirata. Fatta salva la libertà dello Spirito di intervenire per cambiare le carte in tavola (purtroppo i segnali mandati finora per sollecitare la Chiesa ad accettare le sfide del nostro tempo mi pare siano stati in larga parte ignorati).
Per invertire, o almeno rallentare questa tendenza, mi pare che la strada giusta possa essere quella indicata da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi, la cui intenzione evangelizzatrice l’aveva portato a dialogare con tutti incontrandoli laddove si trovavano (“mi sono fatto tutto a tutti per salvare a ogni costo ciascuno”). Se la Messa è sempre più disertata e all’orizzonte non si intravede la volontà di renderla più aderente alla sensibilità moderna, sarebbe opportuno offrire forme alternative, capaci di rispondere alle attuali domande di spiritualità. Identificare quali potrebbero essere sarebbe già un buon punto di partenza per un Sinodo che non vuole accontentarsi delle analisi.
Un’altra tendenza che vedo in atto ormai da tempo mi sembra il progressivo ritiro dei laici dalla partecipazione attiva e la desertificazione delle parrocchie. Per semplificare il fenomeno (e assolversi) noi laici tendiamo a incolpare il povero parroco di turno e benché lo stile del presbitero abbia un suo peso, non può essere solo quello il problema. Molti parroci hanno interpretato finora il loro ruolo in termini “dirigenziali”, un po’ per formazione e un po’ per necessità, con l’effetto di deresponsabilizzare i laici. E se cambiassimo il paradigma, facendo sì che la figura del parroco passi da “dirigente” a “facilitatore”? Uno, cioè, che aiuta i membri della comunità a sviluppare i diversi carismi che ci sono al suo interno, mettendo a disposizione le strutture e le conoscenze, facilitando la realizzazione di nuovi progetti “dal basso” senza il timore di uscire dal seminato? Finché ci sono ancora persone impegnate, mi pare nell’interesse di tutti metterle nelle condizioni di sperimentare, innovare, cambiare, lasciando loro la libertà di ritornare sui propri passi se le novità non dovessero funzionare.
La mia sensazione è che il tempo stia scadendo, un po’ come per la salvaguardia del Creato. Non a caso, il 2050 è stata identificata come data cruciale anche per il futuro del pianeta.
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