Diminuzione del numero di credenti, ruolo della Chiesa nella società, celibato, sessualità... Con parole chiare, il cardinale lussemburghese Jean-Claude Hollerich parla del futuro del cattolicesimo. Per lui, persona di fiducia di papa Francesco, non è il messaggio che bisogna cambiare, ma il modo di esprimerlo.
Lei è stato missionario in Giappone, è gesuita, arcivescovo del Lussemburgo, cardinale... Ha sempre cercato Dio nello stesso modo?
Quando, da giovane prete, sono arrivato in Giappone, è stato un grande choc. Ero all’epoca un giovane impregnato del cattolicesimo popolare del Lussemburgo. Con altri gesuiti, ognuno proveniente da un differente ambiente cattolico, abbiamo visto molto presto che i nostri modelli di cattolicesimo non corrispondevano all’attesa del Giappone.
Per me, questo ha rappresentato una crisi. Ho dovuto astrarre da tutte le devozioni che fino a quel momento costituivano le ricchezze della mia fede, rinunciare alle forme che amavo. Sono stato posto di fronte a una scelta: o rinunciavo alla mia fede perché non ritrovavo le forme che conoscevo, oppure iniziavo un percorso interiore. Ho preferito la seconda opzione. Prima di poterlo proclamare, ho dovuto diventare cercatore di Dio. Dicevo con insistenza: «Dio, dove sei? Dove sei, nella cultura tradizionale e nella cultura del Giappone postmoderno?».
Tornando in Europa, dieci anni fa, ho dovuto ricominciare. Pensavo di ritrovarvi il cattolicesimo che avevo lasciato nella mia gioventù. Ma quel mondo non esisteva più... Oggi, in questa Europa secolarizzata, devo fare lo stesso esercizio: cercare Dio.
L’Europa oggi è tornata ad essere terra di missione?
Sì. Da molto tempo. Il Lussemburgo della mia gioventù assomigliava un po’ all’Irlanda, con grandi processioni, una forte pietà popolare. Quando ero piccolo, tutti i bambini andavano in chiesa. I miei genitori non ci andavano, ma mi ci mandavano, perché era normale farlo. Ricordo che a scuola, un bambino della mia classe non aveva fatto la prima comunione ed era stato uno scandalo. Ora, a provocare scandalo è piuttosto che un bambino la faccia.
Ma, riflettendo, mi rendo conto che quel passato non era poi così glorioso. Evidentemente, non lo percepivo quando ero bambino, ma mi rendo conto oggi che già all’epoca c’erano in quella società molte crepe e molta ipocrisia. In fondo, le persone non credevano più di quanto non credano oggi, anche se andavano in chiesa. Avevano una sorta di pratica domenicale culturale, ma senza che questo fosse ispirato dalla morte e resurrezione di Cristo.
Secondo lei, questa pratica culturale del cattolicesimo è finita?
Non ancora completamente. Ci sono differenze a seconda delle regioni nel mondo. Ma sono convinto che il Covid acceleri questo processo. In Lussemburgo, abbiamo un terzo di praticanti in meno. Sono sicuro che non torneranno. Ci sono persone di una certa età che troveranno difficile e faticoso riprendere la pratica religiosa, spostarsi per andare in chiesa.
Ma ci sono anche quei cattolici per i quali la messa domenicale si limitava ad essere un rito importante, che assicurava una stabilità nella loro vita. Per molti, dirsi cattolici è ancora una sorta di abitudine legata ad una morale generale. Secondo loro, questo contribuisce a dare alla società una certa solidità, ad essere dei “buoni cristiani”, ma senza veramente definire ciò che questo voglia dire.
Ma quest’epoca deve finire. Adesso dobbiamo costruire una Chiesa sulla fede. Sappiamo ormai che siamo e saremo una minoranza. Non bisogna né stupirsi né lamentarsi. Ho la serena certezza che il Signore è presente nell’Europa attuale.
Non ha dubbi su questo? ....
L'intensa intervista continua a questo link:
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