Nel testo dell'evangelo non si parla di nessun miracolo, non c'è nessun invito al misticismo, nessuna moltiplicazione: solo un pressante invito a condividere nel servizio della fraternità con tutti gli uomini
L’episodio Le due feste dopo il periodo pasquale, riassumono e rilanciano quanto la liturgia desidera trasmetterci con l’Evangelista Luca. La settimana scorsa nella Festa della SS. Trinità, ci è stato indicato che il nostro cammino verso la verità è una meta che ci sta sempre davanti e ci ha invitato ad invocare il Signore perché ci guidi a camminare sulla sua via, rendendoci capaci di portare il peso della partecipazione della sua gloria (kabōd, gloria, significa “peso”).
L’episodio dell’Evangelo di oggi al centro della Festa del Corpo e del Sangue di Gesù, è posto al termine di una sezione riassumendo quello che Gesù stava facendo: parlava “alle folle del Regno di Dio e guariva quanti avevano bisogno di cure”. Gesù chiede ai suoi di partecipare e condividere questa sua attività. Lo si comprende nel seguito del brano dove, al centro, ci sono i tre verbi principali del v.16: benedire, spezzare (i pani) e il darli ai discepoli perché li offrissero. Se si desidera comprendere realmente questo brano (normalmente conosciuto come una delle sei difficilmente collimabili versioni che si trovano negli Evangeli della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”) è necessario scrollarci di dosso l’idea che ci tratti di un miracolo. Luca desidera invece indicarci cosa il Signore ci chiede di essere nella nostra vita di tutti i giorni. Vi è cioè l’indicazione di ciò che gli apostoli e i discepoli dovranno fare.
Se si segue attentamente la narrazione, si può vedere come progressivamente Gesù porta i suoi a fare un cammino che giunge a modificare il loro atteggiamento verso le persone che li circondano.
Siamo a Betsaida vicinissimi a Tiberiade (tanto è vero che il nome di questo villaggio significa “Casa della pesca”). Ora vicino ad un lago di acqua dolce la vegetazione e le coltivazioni da sempre sono estese. Quindi è strana e impossibile l’annotazione che si trovavano in “una zona deserta”.
Con questo, Luca desidera richiamare alla memora la situazione dell’Esodo, con la quale Israele è uscito da una situazione di schiavitù verso la terra promessa, cambiando la sua identità da schiavi a quella di uomini liberi al servizio di un Dio che ha chiesto di fare agli altri quello che Lui aveva fatto loro: aveva ascoltato il loro grido di dolore, visto la loro sofferenza, si era chinato su di loro, facendoli uscire da quella situazione (Es 3,7-9).
L’intento di Luca allora è quello di farci riflettere su quale sia il nostro Egitto, da quale situazione, da quale schiavitù Gesù desidera farci uscire, verso quale nuovo modo essere desidera guidarci. Seguendo il racconto troveremo delle indicazioni.
I dodici, grazie anche al loro essere ebrei, sanno che devono fare attenzione al bisogno dell’altro e, vedendo che Gesù continua a parlare ad una grande folla nel declinare del giorno, si preoccupano di queste persone e chiedono a Gesù di smettere perché queste possano andare a cercare cibo e riparo per la notte. È quello che probabilmente avremmo fatto anche noi e che magari facciamo quando vediamo che qualcosa si prolunga nel tempo e, certamente, le persone hanno anche molte altre cose da fare.
Gesù, a sorpresa, chiede ai discepoli di dar loro stessi da mangiare alla folla. Di fatto non ci sta a separare il suo annuncio dalla vita concreta e, forse, è quello che noi facciamo normalmente. Magari ci troviamo sempre alla medesima Messa alla domenica, conosciamo anche per nome delle persone ma, poi, alla fine ci si disperde ciascuno per i propri affari senza sapere nulla della vita degli altri.
La risposta dei dodici è il guardare quello che hanno 5 pani e due pesci, una risorsa del tutto irrisoria e non possono certo andare a compera da mangiare per tutta quella folla.
Gesù sconcerta ancora rifiutando queste due possibilità perché non avrebbero risolto la situazione e si sarebbero collocate in un’ottica assistenzialista, che è quello che normalmente facciamo noi dando qualcosa del nostro superfluo a chi ne ha bisogno.
Non è quello che chiede Gesù ai suoi discepoli e passa a dare un’altra indicazione un po’ strana: “fateli sdraiare a gruppi di cinquanta” “sdraiare, non sedere; fateli cioè porre in modo ordinato nella posizione dei padroni quando mangiano e voi, miei discepoli, sarete con me i loro servitori.
Poi Gesù prese in mano i cinque pani e i due pesci (5+2=7), sette è il numero che simboleggia la totalità di quanto è disponibile e lo prende in mano, se ne fa carico per utilizzarlo al meglio. Per farlo “alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione”. Con questo desidera riconoscere da dove ci vengono beni che abbiamo: sono doni di Dio, non proprietà esclusiva di nessuno. È la preghiera della presentazione delle offerte delle nostre Eucaristie: “Benedetto Signore Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, li offriamo a te …”. Preghiera che ci giunge direttamente dall’antica preghiera quotidiana ebraica che tutt’oggi viene da loro recitata prima dei pasti.
Ma, se sono doni di Dio e, per questi lo benediciamo, questi sono per la vita dell’uomo e non possono essere utilizzati per la sua morte; non sono a nostra disposizione per poterli utilizzare come ricatto, accumulandoli al di là del necessario e tutte le altre realtà che li possono rendere o trasformare in strumenti di morte (quanto sta avvenendo oggi in Ucraina in una guerra che utilizza anche il grano come arma di ricatto e strumento di morte).
Poi “li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero” o, meglio li condividessero tra tutti in modo che tutti ne mangiassero a sazietà senza alcun spreco pur nella sovrabbondanza dei doni del Signore che non vanno scialati.
Questo non può farci tornare all’inizio di questo Evangelo e al suo richiamo al deserto, ricordando il dono della manna: tutti ne raccoglievano e tutti si saziavano ma, se qualcuno ne prendeva una dose maggiore di quanto gli serviva, questa faceva i vermi ed andava a male. È il contrario del nostro normale agire e della logica del mercato che tende ad ampliare sempre di più la forbice tra chi ha e chi non ha, tra chi ha più del necessario e – come li chiama papa Francesco – gli scarti della società. La differenza tra ricchi e poveri sta nella differenza tra chi giunge a fine mese senza doversi fare i conti in tasca e chi invece se li deve fare, scriveva Arturo Paoli.
Significativo poi è che all’inizio del Seder Pasquale (la celebrazione della Pasqua ebraica), si spezza in due l’azzima centrale; una metà si rimette tra le altre due rimaste intere, l’altra metà – chiamato afikòmen - viene nascosta sotto la tovaglia e viene mangiata dopo il pasto, quando si è sazi. La benedizione recitata su questa afferma che viene condivisa quando si è sazi per ricordare che Dio ci dona sempre con sovrabbondanza ciò di cui abbiamo bisogno.
Sintetizzando il messaggio di questo Evangelo al centro di questa Festa, non c’è alcuna tensione misticheggiante alla quale normalmente siamo purtroppo con facilità ancora invitati. Ma c’è un paziente insegnamento del Signore nei confronti dei suoi discepoli di allora, di oggi, di ogni tempo. Siamo chiamati innanzitutto a renderci conto del bisogno dell’altro e invitati a condividere il cammino per risolverlo alla radice senza alcun assistenzialismo liberatorio della nostra coscienza. Bisogni non solo fisici come di pane, ma anche di relazione, di fraternità, di incontro con gli altri uomini e, attraverso loro, con Dio. Possiamo per solo esempio fare poco per esempio per la fame nel mondo, per risolvere la povertà che anche oggi cresce pure in Italia? Certo. Quello però che possiamo sicuramente fare è il non lasciar correre e continuare a far in modo che queste situazioni ci scandalizzino e lo siano anche per gli altri e operare perché questo possa cambiare. La pace e la giustizia si costruiscono passo a passo con un impegno continuo, sono processi culturali lunghi ma è necessario essere pazienti nella semina coscienti che il raccolto sarà di altri. Non è forse questo il cammino sinodale al quale siamo chiamati riscoprendo la fraternità?
Si è discepoli, Chiesa, Comunità non per sé stessi, non per celebrare riti, ma per servire gli uomini, per condividere con loro non solo il pane della Parola, ma anche quello che toglie la fame. Solo così si "onora" quel Corpo e Sangue di Cristo che diventiamo partecipando al Pane unico dell'Eucaristia per fare quello che lui ci invita a fare con quel "fate questo in memoria di me", fate della vostra vita quello che io ho fatto della mia: pane spezzato, vino condiviso.
È questo il cammino che ci aspetta da scoprire e fare da qui alla Festa di Cristo Re in questo Tempo Ordinario.
(BiGio)
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