Nel primo gruppo di pericopi di questa sezione dell’Evangelo di Luca che oggi la liturgia ci presenta, la proposta della sequela ci appare come uno stare simultaneamente dietro a Gesù e un precederlo sulla via che sta per percorrere.
Non il discepolo sceglie Gesù, ma è Gesù che chiama; la sequela poi è la risposta, che non ammette scuse, alla chiamata.
All’inizio del suo viaggio verso Gerusalemme, Gesù non guarda quindi solo alla città da raggiungere, ma il “compiersi” dei suoi giorni: l’esodo su cui intratteneva con Mosè ed Elia nella Trasfigurazione.
Nell’incamminarsi Gesù “indurisce il suo volto”, si forgia un volto pietra come fecero anche Isaia (Is 50,7), Geremia (15,20) ed Ezechiele (Ez 3,8) perché sa che cosa lo aspetta e lo ha già annunciato due volte.
In questo suo andare, invia “messaggeri davanti al suo volto” a preparare il suo passaggio: è questo il nostro compito, quello del Battista “preparare la strada al Signore”. Poi ci penserà lui a compiere il suo compito che non è il nostro anche se spesso ce ne dimentichiamo in una mal compresa “impazienza”. Al massimo a noi sta il seminare; il raccogliere compete ad altri.
Mentre in Matteo Gesù sembra evitare la Samaria passando “al di là del Giordano”, in Luca l’attraversa decisamente trovando una prevedibile opposizione. Giacomo e Giovanni, testimoni della trasfigurazione, pensano di imitare Elia che aveva fatto scendere il fuoco dal cielo per distruggere un villaggio. Ma come quel profeta, devono imparare che Dio non si manifesta tanto in atti di potenza: miracoli, vittorie, clamori o terremoti, quanto “nella voce di un silenzio che svanisce”. Il regno di Dio che si deve proclamare è anzitutto, come ricorda Paolo, “giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14,17). Gesù è durissimo: “Li sgridò” come ha fatto più volte con i demoni o le forze del male perché vede nella richiesta dei discepoli la velleità di un potere che usa la violenza, la manifestazione del maligno che è sempre in agguato. Qui dovremmo fare una riflessione anche noi sul nostro modo di gestire i rapporti, da quelli intrapersonali, a quelli tra Stati e Nazioni.
Nel respingere Gesù i Samaritani rifiutano, per questioni rituali, il suo legame inscindibile con Gerusalemme che ci disturba fino ad oggi perché è il segno dell’elezione di Israele da parte di Dio, elemento centrale della storia della salvezza. Dire che Dio ama tutti, è affermare nulla. Riconoscere il modo che ha il Signore di amare Israele ci permette di vedere le modalità concrete con il quale questo è avvenuto ed avviene. Solo allora possiamo dire “come” Dio ama. Israele in questo modo diventa segno efficace, sacramento dell’amore di Dio per ogni popolo e ogni essere umano. Questo è il compito di Israele nella storia perché ogni dono di Dio è contemporaneamente una gratuità che accoglierla significa il capire che si non si può farne un possesso esclusivo, ma chiama alla condivisione con tutti e per tutti. Questo vale anche per noi e lo affermiamo di tutti i Sacramenti.
Rifiutando Gesù, perché diretto verso Gerusalemme, i samaritani (e noi se contestiamo il legame essenziale tra Gesù e Israele), rifiutiamo di fatto l’amore di Dio per noi.
Dell’essere inviati davanti al Signore che viene Luca sottolinea che lo si è in territori stranieri, in realtà che spesso non conosciamo, che incontriamo per la prima volta, non ci sono sicurezze e c’è il pericolo di non essere accolti. La missione fa parte integrante dell’essere discepoli; chiamati a seguire Gesù, si è anche mandati agli altri. La salvezza il regno di Dio sono per tutti e, il proclamarlo apertamente (“altrimenti lo faranno le pietre”), fa parte del nostro seguire Gesù.
Luca qui si sofferma a delineare tre aspetti, tre situazioni per dirci alcune caratteristiche dei discepoli. La prima è conforme all’abitudine dei rabbini: sono ordinariamente i discepoli che scelgono il maestro che intendono seguire e questi li accoglie; Gesù dichiara invece a chi vuole seguirlo per entusiasmo che, se le volpi gli uccelli hanno un luogo dove ripararsi, il figlio dell’uomo non una casa dove abitare; la sua è una vita precaria che dipende interamente dall’accoglienza che gli si dà. Questa risposta equivale un rifiuto: Gesù non accoglie i dei discepoli, li sceglie, li chiama.
Nel secondo caso è Gesù che chiama, ma il chiamato chiede una dilazione di tempo per poter seppellire il padre, che è un dovere universalmente riconosciuto. La risposta di Gesù non è un rifiuto: ha chiamato e dunque il chiamato obbedirà, per la forza della chiamata stessa; la sua risposta è un no categorico alla pretesa di anteporre qualunque cosa, anche la più sacrosanta, alla sequela, identificata con l’annuncio del regno. Non si può accogliere la vita e rimanere ancora nel mondo dei morti.
Il terzo caso è quello di un uomo che intende seguire ma Gesù rifiuta perché pone delle sue condizioni. L’immagine dell’aratro è significativa: per tracciare il diritto il solco, non bisogna guardare indietro, ma in avanti, verso il punto d’arrivo; così pure nella vita cristiana, come anche ricorda Paolo: “dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù” (Fil 3,13-14).
Riassumendo, da questi tre episodi derivano le caratteristiche essenziali della sequela. Non il discepolo sceglie Gesù, ma è Gesù che chiama; la sequela poi è la risposta, che non ammette scuse, alla chiamata.
In fin dei conti, nonostante continui la consuetudine di battezzare i bambini piccoli, dovremmo sempre ricordare che non è la scelta di Gesù da parte del battezzando (o dei suoi genitori), ma la risposta alla sua chiamata alla quale non si possono porre condizioni: è un dono e contemporaneamente un compito al quale ci si sottrae solo rinunciando alla sua sequela.
(BiGio)
ci provo
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