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Che Chiesa è se non parla le lingue degli uomini?

La chiesa ha bisogno dello Spirito per vivere la propria natura sinodale e ne ha bisogno anche per vivere la propria missione. E d’altra parte, le due dimensioni sono strettamente unite: più la chiesa è sinodale, e quindi dialogica al proprio interno, più è in cammino anche con il mondo, e quindi in dialogo con esso.

Paola Spinghertti e Diego Andreatta su Vino Nuovo


Una chiesa sinodale si costruisce a partire da qui, dallo Spirito che entra in tutti e tutte e affida a ciascuno la missione: annunciare l’Amore. La Chiesa non è tale se non è missionaria e per essere missionaria deve parlare le lingue degli uomini. Oggi chi parla le lingue degli uomini? I missionari impegnati nei Paesi più difficili; le minoranze perseguitate in tanti Paese; ma anche i genitori e gli insegnanti che accompagnano la crescita delle nuove generazioni; i volontari che costruiscono relazioni con i più poveri; le comunità che accolgono gli stranieri; gli scrittori che pongono interrogativi; gli artisti che illuminano le Chiese; gli scienziati che coltivano fede e ragione; i medici e gli infermieri che si piegano sui malati e così via.
Sono davvero tante le lingue degli uomini e devono tessere relazioni complicate, cercare verità nascoste. Sono tutte ricche, tutte difficili.

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A giudicare dai resoconti dei referenti diocesani e dalla voce diretta dei  facilitatori, i gruppi sinodali hanno funzionato per quanto loro veniva richiesto in questa capillare operazione-ascolto. Ma adesso non varrebbe la pena riconvocarli per dare continuità all’esperienza vissuta, andando oltre la fase narrativa?
Sarebbe bene che essi non rimanessero un unicum, da incorniciare tra le tante sperimentazioni parrocchiali come un evento una tantum, inedito ma irripetibile come questo Sinodo che vorrebbe essere policentrico.
Se è vero che “non è stato il solito gruppo” perché disperdere questo stile, questa modalità – chiamata forse un po’ pomposamente  conversazione spirituale – di un ascolto attento, non giudicante, fraterno?
Dove forse ha influito molto anche il fatto che i parroci e i sacerdoti pur partecipando al gruppo hanno fatto un passo indietro (per molti di loro non è stato per nulla facile, per qualcuno è stato un sollievo) e si siano raccontati talvolta anche in modo sorprendente, lasciando però che l’obbligo dei facilitatori laici diventasse una responsabilità laicale vissuta in spirito di servizio.
C’è chi ha osservato che l’invito alle persone meno presenti in parrocchia (ai non credenti è stato difficile estendere la proposta) ha funzionato soprattutto per la sua cadenza una tantum e che quindi  molti hanno accettato “solo per questa volta”. Ma se poi si sono sentiti ascoltati e valorizzati, se hanno riannusato un clima   accogliente come negli anni in cui si preparavano alla Cresima, perché non riconvocarli con la scusa di “vedere cosa ne è uscito” a livello parrocchiale o diocesano?
Soprattutto laddove i gruppi sinodali erano misti e allargati, non  sovrapponibili con i gruppi di servizio o volontariato parrocchiale, la restituzione delle sintesi può essere un’occasione da programmare ancora meglio della fase narrativa: senza fretta.
Si potrebbe affidare ai facilitatori il compito di riannodare i fili dell’ascolto e proporre ai propri gruppi quanto è emerso sui temi da loro affrontati: l’ampio materiale inviato in centrodiocesi e da lì a Roma offrirà  ulteriori elementi, di conferma o di messa in discussione. Il gruppo sinodale riuscirebbe così a tentare l’ approfondimento  che nella prima convocazione era impossibile per ristrettezza di tempo.
Si obietterà che proprio con questo scopo si aprirà la fase del discernimento nei  livelli e nei tempi già previsti, ma sarebbe opportuno trovare il modo per coinvolgere anche i gruppi di base e tenerli “caldi”, con una “seconda chiamata” non troppo lontana nel tempo e destinata anche a far crescere quel confronto dialettico di cui non bisogna aver timore, quando è sincero e costruttivo. “Ascoltare non basta”, hanno detto in molti.

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