A giudicare dai resoconti dei referenti diocesani e dalla voce diretta dei facilitatori, i gruppi sinodali hanno dunque funzionato per quanto loro veniva richiesto in questa capillare operazione-ascolto. Ma adesso non varrebbe la pena riconvocarli per dare continuità all’esperienza vissuta, andando oltre la fase narrativa?
Sarebbe bene che essi non rimanessero un unicum, da incorniciare tra le tante sperimentazioni parrocchiali come un evento una tantum, inedito ma irripetibile come questo Sinodo che vorrebbe essere policentrico.“Mi sono finalmente sentita ascoltata, libera di esprimermi” hanno riferito molte operatrici pastorali che hanno raccolto l’invito alla schiettezza trovando anche il modo di “vuotare il sacco” rispetto a qualche delusione o amarezza del passato. “Non c’era da discutere e prendere posizione, ma di rimanere alla propria esperienza vissuta…” con la leggerezza quindi di non doversi impantanare in dibattiti talvolta polemici o pregiudiziali come i salotti televisivi.“Il facilitatore ci ha aiutato a stare nei tempi, senza che qualcuno, abituato ad essere invasivo, si prendesse troppo spazio”. E’ stato avvertito – e spesso nella Chiesa non è cosi – come un confronto “alla pari” dove anche il parrocchiano più “fedele” e quello riconosciuto come esperto hanno atteso pazientemente il loro turno, si sono raccontati “in dialetto”, in modo personale e diretto, non teorico, senza far pesare o imporre le proprie competenze pastorali (e non solo).Se è vero che “non è stato il solito gruppo” perché disperdere questo stile, questa modalità – chiamata forse un po’ pomposamente conversazione spirituale – di un ascolto attento, non giudicante, fraterno?Dove forse ha influito molto anche il fatto che i parroci e i sacerdoti pur partecipando al gruppo hanno fatto un passo indietro (per molti di loro non è stato per nulla facile, per qualcuno è stato un sollievo) e si siano raccontati talvolta anche in modo sorprendente, lasciando però che l’obbligo dei facilitatori laici diventasse una responsabilità laicale vissuta in spirito di servizio.C’è chi ha osservato che l’invito alle persone meno presenti in parrocchia (ai non credenti è stato difficile estendere la proposta) ha funzionato soprattutto per la sua cadenza una tantume che quindi molti hanno accettato “solo per questa volta”. Ma se poi si sono sentiti ascoltati e valorizzati, se hanno riannusato un clima accogliente come negli anni in cui si preparavano alla Cresima, perché non riconvocarli con la scusa di “vedere cosa ne è uscito” a livello parrocchiale o diocesano?Soprattutto laddove i gruppi sinodali erano misti e allargati, non sovrapponibili con i gruppi di servizio o volontariato parrocchiale, la restituzione delle sintesi può essere un’occasione da programmare ancora meglio della fase narrativa: senza fretta.Si potrebbe affidare ai facilitatori il compito di riannodare i fili dell’ascolto e proporre ai propri gruppi quanto è emerso sui temi da loro affrontati: l’ampio materiale inviato in centrodiocesi e da lì a Roma offrirà ulteriori elementi, di conferma o di messa in discussione. Il gruppo sinodale riuscirebbe così a tentare l’ approfondimento che nella prima convocazione era impossibile per ristrettezza di tempo.Si obietterà che proprio con questo scopo si aprirà la fase del discernimento nei livelli e nei tempi già previsti, ma sarebbe opportuno trovare il modo per coinvolgere anche i gruppi di base e tenerli “caldi”, con una “seconda chiamata” non troppo lontana nel tempo e destinata anche a far crescere quel confronto dialettico di cui non bisogna aver timore, quando è sincero e costruttivo. “Ascoltare non basta”, hanno detto in molti.
(Diego Andreatta - Vino Nuovo)
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