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Il samaritano - Due riflessioni di due fratelli della Comunità di Bose

Un assegno in bianco firmato in anticipo proposto come prassi

Il samaritano compie sette azioni concrete e “il giorno dopo” ne segue un’altra, che resta aperta in modo illimitato, nella misura in cui il protagonista trasmette ad altri il suo “prendersi cura” e si dichiara anche disposto a ripagare all’albergatore “tutto ciò che spenderà in più”… Una sorta di assegno firmato in bianco in anticipo! Tutto ciò è in netto contrasto con l’atteggiamento del sacerdote e del levita: loro non hanno fatto nulla, lui fa tutto. Proprio come nell’episodio della cena in casa del fariseo Simone: lui non aveva fatto nulla per Gesù, la peccatrice pentita aveva fatto tutto (cf. Lc 7,44-47). 

Ciò che viene suggerito è che proprio a partire dai “margini” - abitati dai marginali e dagli esclusi - l’amore di Dio spesso è compreso e accolto meglio. Nella misura in cui costoro sono coscienti della propria marginalità ed estraneità, del proprio non “essere in regola” all’interno del popolo di Dio e - nel modo che Dio solo conosce - arrivano a sentirsi “amati” (pur indegnamente), proprio così sono capaci di accogliere il grande amore di Dio e di “amare molto” a loro volta. 

Nella misura in cui invece il credente si installa, perdendo quel salutare sentimento di xeniteía (“stranierità”), per altro essenziale nell’esperienza di fede d’Israele, allora il suo rapporto con Dio cambierà totalmente. Finirà per avere la pretesa di amare Dio unicamente a partire da sé stesso e non a partire dall’amore che accoglie da Dio; e il suo amore per Dio si esprimerà più nel culto che nella vita, ossia nell’amore per gli altri.

Nella sua eterodossia il samaritano ha compreso e accolto il Dio d’Israele più degli esperti del culto e della Legge. Con la sua compassione egli è giunto al cuore dell’agire di Dio e della Torah: “Misericordia io voglio e non sacrifici, la conoscenza di Dio più degli olocausti!” (Os 6,6). Nella persona del sacerdote e del levita Gesù che passano oltre nell’indifferenza denuncia chiaramente una liturgia svincolata dalla vita. Una denuncia che rimane del tutto valida anche per noi: se, quando usciamo dall’eucarestia, il nostro cuore non è trasformato né più pronto ad accogliere gli altri, a che cosa ci serve avervi partecipato? Non certo a rendere culto a Dio, ma solo ad accecarci di più e a ingannare noi stessi.


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Forse dovremmo cercare di guardare la scena della nostra parabola mettendoci nei panni dell’uomo ferito. Si entrerebbe in un’altra visione del mondo e si potrebbe entrare nella storia di quest’uomo che conosce quattro tappe:

1.    È un uomo normale, come me, come tutti, che sta facendo la sua strada.

2. L’inatteso rende quest’uomo quasi morto a causa della violenza. Quest’uomo viene picchiato, ferito, rapinato, malmenato, condotto a un passo dalla morte.

3.    Davanti al sacerdote e al levita quest’uomo diviene colui di cui non ci si prende cura, che patisce l’indifferenza omicida: sperimenta di non essere nulla, uno da evitare.

4.  Davanti al Samaritano egli diviene l’uomo aiutato, soccorso, che conosce chi si prende gratuitamente cura di lui, colui che sperimenta la compassione dell’altro.

Non basta vedere il sofferente: occorre fargli spazio in noi, far sì che la sua sofferenza avvenga un po’ in noi. La compassione è la radice della prossimità perché essa dice: “Tu non sei solo perché la tua sofferenza è, in parte, la mia”. Possiamo dire che la compassione è il “sottrarre il dolore alla sua solitudine”. Davvero dunque i tre personaggi della parabola disegnano un unico percorso e un’unica storia, quella della compassione che fatica a farsi strada in noi, nel nostro cuore. Occorre saper vedere la propria paura, la mia paura che mi impedisce di cogliere la sua, di lui che è impotente e in balia del primo che si avvicina e gli può dare il colpo di grazia. Forse la mia paura di fronte all’altro sofferente è la paura dell’isolamento in cui giace il ferito: se io accetto di incontrare in me questa solitudine spaventosa, forse potrò farmi vicino all’altro e diventare presenza nella sua solitudine.

La compassione è qualcosa che si fa, è una prassi, non un sentimento. Si situa sul piano dell’effettività, più che dell’affettività. Comporta movimenti interiori come il rigetto dell’indifferenza e l’assunzione della responsabilità personale. Ma anche esteriori e tangibili come il dare tempo, energie, denaro. Ed esige una collaborazione: il Samaritano ha bisogno di altri e di istituzioni per poter adeguatamente aiutare il ferito. Il locandiere e la struttura in cui egli sarà accolto e curato.

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