Domenica XVII TO – Lc 11,1-13

Dire "Àbba" ci rimanda al nostro Battesimo

 

Dopo averci presentato cosa sia la sequela e la missione, il racconto di due incontri di Gesù hanno offerto a Luca l’occasione di chiarire ciò che sta al centro della vita cristiana: l’amore come compassione che è un fare, una prassi, non un sentimento. L’altro versante di questa medaglia è l’amare Dio con tutta la nostra persona. Per poterlo fare, è però necessario non avere un cuore dilaniato dalle troppe tensioni come quello di Marta, bensì unificato come quello di Maria. L’averlo però è un dono che va accolto e chiesto nella preghiera. Così oggi Luca ci presenta Gesù che prega e, in seguito rispondendo alla domanda degli apostoli, li rende partecipi del suo modo di pregare.


Sul Padre Nostro si sono scritte librerie intere e, leggendolo all’incontrario, è anche possibile rintracciare il percorso dell’Esodo. In estrema sintesi: “Liberaci dal male” cioè dalle nostre schiavitù; “Non abbandonarci nella tentazione” di tornare indietro, di rimpiangere, di fronte alle difficoltà della libertà, la situazione di una vita fatta di certezze pur nella fatica dell’oppressione; “Rimetti a noi i nostri debito come noi…”  aiutaci a superare l’amarezza contro chi ha schiacciato facendo fare una vita umiliante; “Dacci oggi il nostro pane” è il ricordo dell’invocazione che li ha portati a vivere della manna che era necessario raccogliere solo quanta ne bastava per ogni giorno, evitando accaparramenti e accumuli che impediscano ad altri di averne a sufficienza; per poi continuare poi con l’ingresso nella Terra Promessa, regno del Padre da realizzare “Sia fatta la tua volontà”; perché questo è “santificare il suo nome”: fare in modo che sulla terra sia fatta la sua volontà così come è in cielo.

    

Ma viene poco sottolineato come sia una preghiera “ebraica” non solo perché ricca di richiami alla Scrittura e alla liturgia anche odierna del Popolo del Signore (vedi il post precedente: https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2022/07/il-padre-nostro-con-le-radici-nella.html), ma anche perché vi si distingue già bene la struttura tripartita delle Diciotto Benedizioni che gli ebrei recitano tre volte ogni giorno e che è al centro della loro liturgia quotidiana. All’epoca di Gesù la struttura era già stata codificata ed ogni maestro la riempiva con le sue invocazioni come è ben dimostrato nel fondamentale studio di Milena Beux Jäger.

Solo così si può comprendere il senso della domanda dei suoi discepoli. In fin dei conti erano dei pii ebrei che frequentavano le Sinagoghe ed il Tempio. Conoscevano certamente la preghiera del loro Popolo, rispettavano i tempi della preghiera alla mattina, a metà giornata, alla sera; benedicevano e rendevano grazie per i loro pasti come già avveniva allora. 

Anche oggi le “scuole di preghiera” e i “modi di pregare” sono diversi e differenziati e ciascuno di noi può averne una sua propria rispettosa della sua spiritualità. La “Preghiera di Taizè” è diversa da quella che si matura frequentando gli Evo; gli accenti della Comunità Focolarina è diversa da quella di Comunione e Liberazione. Anche nella celebrazione della Liturgia delle Ore che unifica la preghiera della Chiesa, ci sono modalità diverse: una cosa è pregarla in gregoriano, un’altra con le melodie di Bose.

Dunque non c’è da stupirsi se all’epoca di Gesù ogni Maestro proponeva ai discepoli il “suo” modo di pregare, per aiutarli a rapportarsi con Dio, affiancandolo a quello liturgico consueto. L’Evangelo ci presenta molte volte che Gesù si appartava a “pregare”. Allora quella richiesta fatta ai Maestri, quindi anche a Gesù, non era e non è tanto lo spiegare come fare, bensì la domanda di poter imparare il loro modo di rapportarsi con Dio In questo modo i discepoli potevano a lora volta entrare e partecipare della preghiera, nel dialogo fatto di ascolto, di verifica e di domanda che il loro maestro intratteneva con Dio.

La preghiera di Gesù, allora, non è dunque solo una formula da ripetere più o meno coscientemente, è la preghiera che Gesù stesso rivolge al Padre e, il dirla, è entrare nel dialogo ricco di amore tra Lui e il Padre, è entrare nella vita di Dio, nella comunione divina; è per eccellenza il marchio del nostro essere diventati figli nel Figlio.

 

Lo si capisce meglio seguendo Luca che non introduce la preghiera di Gesù con l’ebraico “Abinu” (Padre Nostro come in Matteo e così come tutt’ora introducono gli ebrei quando si rivolgono a Dio), bensì con l’aramaico “Àbba”, papà nella lingua corrente all’epoca di Gesù (l’ebraico era diventata la lingua colta della liturgia, come da noi una volta il latino). Ora questo termine è divenuto di uso comune nell’ebraico anche dagli adulti per l’intimità e la confidenza che sollecita ed instaura.

È solo una mia personalissima suggestione che vale quanto vale, ma le due Bēth  di Àbba affiancate che compongono questo lemma, possono far pensare di essere loro a far nascere al loro interno quel dialogo unico di piena fiducia e sintonia fra quell’ “io” e quel “tu” di un figlio che condivide tutto con il proprio padre nel rispetto dei ruoli.

 

Ma chi è questo Àbba al quale si rivolge Gesù e ci invita anche noi a fare altrettanto? Certo, è Dio, ma rimanda innanzitutto all’origine per richiamare da dove si viene. Non certo alla Creazione o alla generazione: non si è “figli” del Padre in virtù di questo, bensì a causa dell’elezione che, per noi cristiani, è stata manifestata nel battesimo. Nella preghiera, dunque, siamo invitati a rivolgerci a Colui che ci ha generato mediante lo Spirito Santo. In questo senso nostra “madre” sono le acque battesimali nelle quali Dio ci ha generati.

Rimandare all’elezione significa di riandare all’amore di questo Padre e alle sue benedizioni, (vedi Dt 7,7-15) come anche la sua compassione, alle sue “viscere di misericordia” da madre (vedi Is 63,7-15; Os 11,8). Quindi nessuna possibilità di identificare Dio con un unico genere. 

Facendo riferimento alla figura paterna, si pensa anche alla sua autorità, che si deve però intendere nel senso etimologico di “colui o ciò che fa crescere” (dal latino augere, “accrescere”). Il Padre è in questo senso colui che veglia sulla crescita del figlio, lo protegge e, come tendendosi dietro a lui, gli dà qualche pacca sulle spalle per incoraggiarlo o per fargli scegliere la giusta strada. Proprio per tutto questo il cristiano può rivolgersi a Dio, al seguito di Gesù, come Àbba, con tutte le dimensioni di tenerezza, di confidenza e di fiducia che la parola “papà” può comportare.


Ma mi raccomando, Àbba con l’accento sulla prima “a”, altrimenti è un avverbio di tempo che significa “prossimo” di un qualcosa che sta per arrivare.

 

(BiGio)

 

 

 

Nessun commento:

Posta un commento