È la seconda volta, in una decina di anni, che Maria Rossi, nome di fantasia, ospita nella sua casa famiglia una donna che deve ancora finire di pagare il suo debito con la giustizia ma che ha un figlio con sé. “È un’esperienza faticosa ma bella”, ci racconta
A fine maggio la Camera dei deputati ha approvato una proposta di legge volta ad ampliare la tutela dei figli minori di genitori soggetti a una misura detentiva, attraverso l’esclusione del ricorso al carcere e la valorizzazione dei cosiddetti Icam, Istituti a custodia attenuata per detenute madri. Il provvedimento deve ora avere il via libera definitivo al Senato. La Comunità Papa Giovanni XXIII(Apg23)è da anni impegnata a denunciare la presenza in carcere di “bimbi reclusi” con le loro madri e a promuovere pene alternative alla detenzione per mamme e bambini. L’approvazione della proposta di legge alla Camera, aveva commentato al Sir il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, Giovanni Paolo Ramonda, “è un primo passo fondamentale perché viene riconosciuta la dignità del bambino, che insieme alla sua mamma, che evidentemente ha compiuto dei reati, possa rimanere nel legame di relazione madre-figlio, ma al di fuori della struttura carceraria, accompagnato in un percorso di accoglienza nelle case famiglia o nelle comunità che hanno anche la competenza di sostenere un processo educativo della mamma nei confronti del bambino”. E noi abbiamo raccolto la testimonianza di Maria Rossi – nome di fantasia, per tutelare le persone che accoglie – che proprio a fine maggio ha riaperto le porte della sua casa famiglia, appartenente alla Comunità Papa Giovanni XXIII, a una mamma detenuta con un bimbo, dopo una prima esperienza alcuni anni fa.
La cronaca di Gigliola Alfaro continua a questo link:
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