Rembrandt: nella Natività la croce, segno di speranza

Rembrandt ci permette di entrare nella casa della famiglia di Nazaret ad un'ora serale, tutto è avvolto nella penombra: il piccolo Gesù dorme e Giuseppe si attarda a piallare un giogo. Tutta la luce della stanza è sulla Vergine che pare tesa fra due poli: la Parola che tiene fra le mani e suo Figlio. Quella che la Vergine ha appena letto è una parola amara in cui già s'adombra la sagoma della croce. C'è sempre la croce, nascosta qua e là nelle opere sul Natale.


A volte è fin troppo evidente, come nella natività del Lotto che appende un anacronistico crocifisso al muro della stalla. Talora è evidente anche a noi, come nella guerra in Ucraina e in tutte le altre parti sparse sulla terra, nei profughi che subiscono “the game” (i respingimenti), i morti in mare. Anche al san Giuseppe ritratto da Rembrandt tutto sembrava tranquillo ma nell'ideale centro del dipinto una coperta rossa presagisce il dramma. Sì, la carità di Dio riposa sulla terra dentro a un bambino da nulla, un bimbo vero, nato da donna. In lui una passione ha da compiersi presto e sua Madre ne soppesa la gravità. 


Gli elementi sparsi sul pavimento della casa tracciano l'identikit dell'uomo-Dio: Gesù è il vero roveto che arde senza bruciare; egli rivela all'uomo non solo il nome, ma anche il volto di Dio, un volto di grazia e di misericordia. Vicino al fuoco un orinatoio, segno della sua reale umanità. Tra le modeste pareti di questa casa irrompe il Cielo rivelando angeli danzanti che sembrano indicarci qualcosa. Il primo, già dentro la casa, apre le braccia a forma di croce. È lui a narrarci il prezzo della carità che Cristo è venuto a portare per sconfiggere il peccato. È lui a segnalare che dietro la poesia del Natale irrompe la tragedia. Fuori, infatti, il mondo consuma le sue sciagure, ieri come oggi, senza riconoscere che la speranza più vera è riposta in questo Figlio. Egli, che più di noi è nato per morire, dà senso ai nostri lutti, alle morti innocenti di ogni tempo. Accanto all'angelo con le braccia a forma di croce c'è un altro angelo che guarda il bambino, additando una meta più alta. Tiene in mano una ghirlanda di fiori, segno di vittoria, mentre un drappo bianco sembra scivolare dalla luce del Cielo alla luce di quel Bambino. Quest'angelo è metafora della risurrezione. Il Verbo di Dio, concepito di Spirito Santo e nato dalla Vergine che, crocifisso, morirà come ogni uomo è lo stesso Cristo, Figlio del Padre, che risorgerà il terzo giorno. Che cosa potremo raccontare, del resto, alle famiglie devastate da un lutto, alle madri straziate per lo scempio inferto ai loro figli da una cultura di morte, ai padri senza lavoro e senza dignità, ai figli senza padre e senza madre, ai poveri, scarti dell’umanità? Forse solo Lui. Un ultimo angelo sigilla l'intera scena. Ne scorgiamo la nuca. Questi è l'unico rivolto verso i Cieli dei Cieli, verso la casa del Padre. È lui che, guardando dentro l'origine di tutto, spinge anche noi a non fermarci alla croce ma ad andare al cuore del messaggio di Cristo: nulla di ciò che accade è fuori dallo sguardo del Padre. Ecco ciò che racconta il Cristo che nasce: lo sguardo del Padre è su di noi, sulle nostre croci, il suo braccio potente non si è accorciato, ma nella sua misericordia interverrà per vie che ora sfuggono alle nostre miopie.

(Gloria Riva)

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