Questo nei nostri tempi difficili nei quali risuonano difficoltà e situazioni che si speravano superate per sempre nella nostra Europa. Viviamo in una realtà che pare sempre più grigia, di rassegnata disperazione in chi ha perso tutto, in chi non ha più certezze, di chi vede quotidianamente la morte alla sua porta, di chi prova quel dolore che lacera il corpo e spezza il cuore.
Eppure la gioia cristiana non è illusione o vaneggiamento, non è fuga o irrealismo ma è proprio per chi non vede motivi in cui sperare, esultare: è in queste che Dio ci ricorda e ci mostra che egli viene, viene proprio dove non lo aspettavamo, proprio quando tutto ci portava a chiedere: “Per quanto ancora Signore dobbiamo sopportare tutto questo?”.
È una domanda che non attende risposta, almeno non una fatta di finte certezze. Ci deve invece servire per comprendere come stanno le cose, per chiederci cosa ancora ci manca per aprire gli occhi e le orecchie per riconoscere colui che è venuto viene e verrà.
Non ci sembra sufficiente quello che abbiamo, vorremmo un Dio capace di agire diversamente, viviamo in attese sempre di qualcosa di “diverso”, che dia una svolta alla nostra vita come se si trattasse della vincita ad una lotteria magari senza mai giocare, acquistare un biglietto. Desideriamo essere resi felici da qualcuno che ci mostri una strada piana se non in discesa, senza curve pericolose e tornanti; speriamo in una vita resa comoda e facile da qualcuno che faccia quello che vogliamo.
Invece nell’Evangelo di Luca della Messa nella notte (non della mezzanotte!), ci viene solo detto di “non temere” e ci viene dato “un segno” che è un non segno o, almeno, non quello che aspettavamo per risolvere i nostri problemi: “un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia”.
È l’invito a imparare a vedere e a udire fissando lo sguardo non sul nostro ombelico ma su quello che accade davanti a noi e che da tempo è stato annunciato solo che non fa notizia: i ciechi vedono, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano e ai poveri, ai piccoli è annunciata la lieta notizia. Ogni storia, ogni vita porta il peso delle sue ferite e l’invito dell’Angelo (cioè di Dio) agli esclusi del tempo, ai diseredati, ai considerati impuri, a quelli che erano guardati con disprezzo ieri come oggi, è quello di guardare la vita rifiorire di nuovo “un germoglio spunterà dal tronco di Iesse” aveva profetizzato Isaia. Questo tronco secco siamo noi ma, nonostante la nostra cecità, Dio continua a riempirci della sua grazia, del suo amore, della sua misericordia fino a sperperarla finché non ci accorgiamo che una gemma vitale buca la nostra scorza arcigna e ci affrettiamo a curarla, ad irrorarla, a concimarla, perché cresca e porti quei frutti sperati.
Se questo non ci basta, se non ci è sufficiente quel bambino inerme e ancora aspettiamo altro, forse è perché non sappiamo sperare, attendere, avere progetti, desideri, bisogni al di là del nostro ego; forse è perché non sappiamo guardare attorno a noi e vedere il bisogno dell’altro da accogliere, affiancare, accompagnare, far fiorire quel un germoglio di vita nuova che Dio ha fatto germinare in loro.
La “grande gioia” che ci annuncia l’angelo non nasce dalla soddisfazione per ciò che viviamo, non è il frutto della realizzazione di ciò che speriamo. È invece l’esito imprevisto e a volte scandaloso della capacità di vedere e udire come Dio conduce avanti la storia, come realizza la vita lì dove regna la morte, come diffonde la luce lì dove domina il buio, come parla e crea relazione lì dove domina l’isolamento, come cura e sana la vita lì dove regna l’invivibilità, come riempie di gioia e lieto annuncio la vita dei poveri, i primi che lui dichiara “beati”. Ma tutto questo attraverso di noi, attraverso le mani degli uomini credenti o meno. Lo si può toccare con mano nelle favelas o nei barrios dove, come recita il titolo di un bellissimo libretto, "L’oro dei poveri è la solidarietà". Ma non serve andare lontano, basta guardare a chi fa accoglienza, a chi opera nelle mense e nei dormitori per i senza fissa dimora, a chi distribuisce vestiti a chi ne è senza, a chi segue tutte le situazioni di emergenza e sono opere che non si trovano nelle pagine dei giornali.
Nell’Evangelo della notte ma anche in quello del giorno di Natale c’è poi un avverbio di tempo che colpisce: “subito”. Subito “apparve una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio”, come anche subito i pastori decidono di andare a Betlemme per “vedere” quanto il Signore aveva fatto loro conoscere e c’è stupore con Maria che conserva tutto quanto le viene riferito “meditandolo nel suo cuore”; atteggiamento questo che fa coppia con quel "sogno" di Giuseppe: sempre di ascolto si tratta, cioè del momento principe della preghiera.
Poi i pastori tornano alla loro vita, alla loro quotidianità portato e conservando nel cuore quello che hanno udito e visto, glorificando e lodando Dio.
Sono questi gli atteggiamenti che l’inaudito di Dio, ogni germoglio di vita nuova, ci viene chiesto di far nostri.
(BiGio)
È tempo di aprire
la vita alla gioia,
di esultare
in questo deserto,
anche se arida
ci appare la terra.
È tempo di credere
a promesse impossibili,
è tempo di dire,
con tutta la vita,
che ogni cosa che sembra morta
fiorisce ed esulta
e canta di gioia
al passaggio di Dio
nella tua storia.
Egli viene e sarà primavera,
egli viene e risplende la gioia,
egli viene e sarai salvo,
E a tutti quelli che sono stanchi,
che non reggono il peso
di questa terra,
che hanno il cuore smarrito da tempo,
tu dona coraggio.
Prendi per mano
chi è troppo deluso
e non può sperare ancora.
Tu mostra a tutti
il Signore che viene,
mostra che egli viene a salvarci.
E anche se la vita
ti ha reso cieco o forse sordo,
zoppo o forse muto,
questo è il tempo
in cui il lamento
si trasforma in canto e gioia piena.
E tu, donaci di vedere e di sentire,
di annunciare e di saltare
perché per noi tu hai aperto una strada,
un sentiero che conduce a te.
E redimici ancora,
riscattaci sempre
dalle nostre miserie,
dalle nostre deluse
infedeltà,
dalle nostre incerte
speranze tradite.
Fa’ fuggire da noi la tristezza e il pianto
perché risplenda sul nostro volto
il grido di vita che tutti aspettano,
quello nascosto in tante urla,
messo a tacere in tanti modi,
l’unico grido che bisogna gridare:
“Coraggio, non temete!
Egli viene a salvarvi!”
(cfr. Is 35,1-6a.8a.10)
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