Nessuna legge in materia di psichiatria sarà abbastanza innovativa finché si continuerà a trattare il disagio psichico con pratiche finalizzate più al controllo che alla cura. Un dialogo con lo psichiatra Ugo Fornari
Periodicamente fatti eclatanti di cronaca portano all’attenzione dell’opinione pubblica situazioni in cui persone con disagio psichico diventano socialmente pericolose: si determina così un dibattito emotivo che oscilla tra la paura e le proposte di esclusione e reclusione delle persone affette da questo tipo di disagio (sino al tradizionale «buttiamo la chiave» dopo averli rinchiusi).
Con la legge del 30 maggio 2014, che ha decretato il superamento dei cosiddetti ospedali psichiatrici giudiziari, sembrava si fosse fatto un passo avanti significativo. Ne abbiamo parlato con Ugo Fornari, già professore ordinario di Psicopatologia forense all’Università di Torino e autore di numerose pubblicazioni, tra cui il Trattato di psichiatria forense (Utet, 2021). «Per inquadrare bene la situazione attuale – esordisce il professore – bisogna partire dal fatto che nell’Ottocento e per buona parte del Novecento il trattamento della follia è rientrato quasi esclusivamente nella dimensione del controllo sociale, attraverso l’espulsione dal consorzio civile delle classi pericolose, identificate fin dai secoli precedenti nel sottoproletariato, nei disoccupati, nei vagabondi, nei mendicanti, negli immigrati, nei nullatenenti e nei pazzi, categoria non ben definita di diversi. Ecco che allora la storia del manicomio civile si identifica con un certo modo di concepire la psichiatria, come una forma di esercizio particolare del controllo sociale».
L'intera intervista a cura di di Fabrizio Floris Pino Luciano a questo link:
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