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Il Dio che viene è un Dio ferito. Commento della quarta orazione colletta d’Avvento

Infondi nel nostro spirito, ti preghiamo, Signore, la tua grazia, 
affinché noi che abbiamo conosciuto l’incarnazione di tuo Figlio all’annuncio dell’angelo,
attraverso la sua passione e croce 
siamo condotti alla gloria della resurrezione

Questo testo, nella sua cristallina bellezza, disturba. Che cosa c’entra una simile preghiera con la domenica che precede Natale? Proprio nello sconcerto che genera svolge il prezioso compito di allargare la prospettiva dell’attesa del Figlio di Dio che viene, raccogliendo in una visione unitaria il mistero della salvezza.

Corriamo incontro al Figlio Veniente con azioni di giustizia, discernendo come viverle qui e ora, e in una gioia feconda. Il Figlio non è un volto anonimo, una figura evanescente; è Gesù di Nazaret, il figlio di Giuseppe e di Maria, annunciato da un angelo, che ha percorso le vie di Galilea, Samaria e Giudea, facendo del bene e annunciando la venuta del regno di Dio, e che a Gerusalemme, abbandonato dai suoi e consegnato al potere religioso e politico, è stato torturato e ha subito infine una morte violenta e infamante. Il Messia che viene a noi per farci sedere alla sua destra al banchetto del Regno, secondo l’immagine potente di Giovanni (Gv 20,19-23) è il Crocifisso Risorto. Chi viene alla fine dei tempi porta nel corpo i segni della passione, la ferita nelle mani e lo squarcio nel fianco. È un corpo che ha perso integrità in eterno, ma ora esso è in Dio ed è Dio. La resurrezione non è un happy end, non è il ritorno alla quiete di prima dopo la tempesta. Il Dio che viene a noi è un Dio ferito per sempre! Queste ferite non parlano la lingua del risentimento e della vendetta, ma sono il segno del suo amore indefettibile per noi, un amore forgiato dalla prova della passione e della morte in croce. Le ferite sono uno spazio aperto per accoglierci: ciascuno e ciascuna di noi con le sue ferite lì trova un luogo per sé. In questo testo il mistero della salvezza condensato nella vita del Figlio si dà nella sua gratuità, espressione della cura commossa di Dio per noi.

La resurrezione così non rende vana la croce (1Cor 1,17): non si rimuove con leggerezza la sofferenza patita. Solo che Gesù ha saputo attraversarla non rispondendo al male con il male, rompendo il cerchio della violenza con il suo amare, con l’amare i nemici (Lc 23,34). Questo significa credere all’amore che Dio ha in noi (1Gv 4,16), anche se secondo i parametri di questo mondo esso è sconfitto. Attendere con fede la venuta del Messia è credere a questo amore.

Perciò domandiamo al Padre di infondere in noi la grazia. Le nostre forze non bastano. La nostra mente da sola non riesce a comprendere. Frutto del dono della grazia è custodire nella memoria la nascita del Figlio, nutrire la fiducia nell’amore e nel perdono sempre disponibili da parte del Padre e sperare l’insperabile, la nostra resurrezione. Siamo condotti alla resurrezione mediante la passione e morte di Cristo, che ci annuncia che nessuna esistenza andrà persa, che Dio cerca e ritrova le cose perdute.

(fr Davide di Bose)

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