Domenica XXXIV PA - Mt 25,31-46

È quasi identica la risposta dei due gruppi di persone: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato …”, ma i secondi che chiudono con un “… e non ti abbiamo servito”; questo marca la differenza perché il Signore è venuto per servire, non per essere servito. 

Condividere la vita di Dio significa rispondere ai bisogni elementari delle persone. Non ci vengono chieste delle azioni straordinarie, ma solo azioni umanitarie.


(Le sette opere di misericordia di Caravaggio)

Siamo giunti al compimento (non alla fine!) di questo Anno Liturgico durante il quale la Liturgia ci ha accompagnato alla scoperta di Gesù di Nazaret, alla “lieta notizia” che ha annunciato, all’invito fattoci di partecipare fin da ora al Regno dei Cieli costruendolo mattone su mattone seguendo il suo esempio nell’annunciare il volto misericordioso del Padre.

Le ultime domeniche ci hanno consegnato quasi una sintesi attraverso quattro attenzioni da tenere sempre a mente per non perdere di vista l’obiettivo: un imperativo “Amerai” il Signore tuo Dio e il prossimo come te stesso; l’invito ad essere e rimanere sempre degli “anawim” cioè degli uomini che si pongono al servizio dell’altro secondo il cuore del Padre; il consiglio pressante a rimanere costanti nell’ascolto della Parola che è “luce ai nostri passi”; infine a non nascondere l’eredità che il Signore ci ha lasciato, il suo Spirito, ma a farlo fruttare attraverso tutte le capacità che abbiamo, poche o molte che siano.

 

La pagina dell’Evangelo di oggi è molto nota e le sue rappresentazioni fin dai primi secoli non si possono contare tanto sono numerose ma nelle quali è difficile scorgere il “lieto annuncio” di un Signore che ha fatto della misericordia la sua nota caratteristica. Appare piuttosto il volto serio di un re attorniato dalla sua corte che giudica insindacabilmente l’umanità intera dividendola in buoni e cattivi, in giusti e peccatori il cui destino per i primi è la vita eterna, per gli altri il supplizio eterno. Forse è il caso di chiedersi se questa lettura sia corretta o meno visto che contraddice il nocciolo duro del messaggio evangelico.

Dimentichi dell’inizio dell’Evangelo di Matteo nel quale Gesù esprimeva senza parafrasi alcuna il suo pensiero e che ha iniziato a parlare in parabole da quando si è spostato a nord del lago di Galilea, a questo punto dell’Anno Liturgico siamo così abituati a questo suo linguaggio che è facile cadere nell’errore di leggere questa pericope come se anche questa pagina fosse una parabola, ma non lo è affatto.

Qui Gesù usa un “topos” letterario, un motivo ricorrente comune a tutte le culture del medio oriente a iniziare da quella egizia: quello del giudizio dei morti. Questo allora significa che l’insegnamento di questa pagina va cercato altrove e non è affatto usabile per “far paura” come purtroppo da troppo tempo avviene con scopi tutt’altro che evangelici ma, direbbero i sociologi, meramente umani tesi al fine di trasmettere e di garantire il controllo sociale.

 

Certo, la festa di oggi ci invita a celebrare Cristo Re dell’Universo e l’iconografia ce lo fa vedere, come nell’abside centrale nella Basilica di S. Marco a Venezia, benedicente solennemente seduto su di un trono con i piedi appoggiati su di un parallelepipedo che rappresenta la creazione e l’Evangelo in mano. Immagine ricca di significati e messaggi teologici ma è proprio questo il “trono” nel quale Gesù ha mostrato la sua gloria o, piuttosto, è sua croce? Negli Evangeli, in particolare in quello di S. Giovanni, certamente la croce.

L’uomo al termine della sua vita è chiamato a confrontarsi con quella di totale donazione fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,8) che è stata quella di Gesù e, di fronte a questa, emergerà che tipo di umanità abbia incarnato: sarà stato pecora o capro? grano o zizzania? Un pesce buono o uno cattivo? Sono dualismi che Gesù ha proposto per dirci che durante la sua vita l’uomo è un po’ l’uno e un po’ l’altro, in parte opera facendo della propria vita un dono d’amore, in parte ha chiuso il suo cuore guardando solo ai suoi interessi.

Alla fine confrontandoci con lui si comprenderà quanto di quelle che chiamiamo “opere di misericordia” abbiamo operato. L’elenco che Gesù ne fa non è una sua invenzione: la si trova già nell’egiziano “Libro dei morti” ma anche in Giobbe e in Isaia. C’è una unica categoria di persone che aggiunge e sono i carcerati perché, anche in coloro che stanno pagando per i delitti che hanno commesso, c’è l’immagine del Figlio di Dio: nessuno ne è privo. È per questo che nel supplizio eterno, a bruciare nel fuoco della Geenna (la valle a sud di Gerusalemme dove bruciavano continuamente le immondizie), finirà tutto il male presente in ogni uomo mentre ciò che è stato compiuto secondo lo Spirito rimarrà salvato.

Questo ci viene attestato dal testo greco nel quale il termine tradotto come “supplizio”, in realtà significa “fare pulizia” ed è confermato dall’esempio che Gesù ha fatto parlando della vite e dei tralci: quelli secchi che non hanno portato frutto, vengono tagliati e bruciati.

 

Può sorprendere la quasi identica risposta dei due gruppi di persone: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato …”, ma i secondi che chiudono con un: “… e non ti abbiamo servito”; questo marca la differenza perché il Signore è venuto per servire, non per essere servito e, con questo atteggiamento, lui ha nulla da condividere. 

 

In una battuta l’insegnamento di questa ultima pagina dell’Evangelo di Matteo che la Liturgia quest’anno ci propone è che il condividere la vita di Dio significa rispondere ai bisogni elementari delle persone. Non ci vengono chieste delle azioni straordinarie, ma solo azioni umanitarie. Questo è possibile a tutti, a tutti i popoli, anche alle nazioni pagane che il termine greco indica. È questa la lieta notizia!

(BiGio)

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