La soluzione per la Palestina non arriverà dal diritto internazionale

La reazione israeliana alle parole del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha dato la stura per ritirare fuori l’usurato argomento della violazione israeliana del diritto internazionale. Mossa, che, a mio parere, non può che alimentare la spirale del conflitto. Non è il mio approccio al problema, ma è assai facile dimostrare, così come fatto innumerevoli volte, che queste tesi ammettano contro argomenti altrettanto validi.

Anzitutto vale un principio: come il diritto internazionale dà, il diritto internazionale prende. Assumiamo come caso scuola il tentativo palestinese di adire la Corte Penale Internazionale nel 2009, a seguito dell’operazione militare israeliana nota come «piombo fuso», la più cruenta fino ad allora sperimentata. Dopo tre anni di analisi preliminare, il procuratore aveva concluso di non essere in grado di decidere se la Corte avesse giurisdizione o meno sulla Palestina, non essendo possibile esprimersi sulla sua natura statuale.

La situazione sembrò sbloccarsi nel dicembre del 2012, quando Abu Mazen riuscì ad ottenere la promozione della Palestina da membro osservatore all’ONU a Stato osservatore. Fu sufficiente perché la Palestina ratificasse, nel 2015, la sua presenza come membro della Corte Penale Internazionale. La procuratrice della Corte Fatou Bensouda riaprì, così, l’esame preliminare. Ci vorranno sei anni per stabilire se vi fossero i requisiti perché l’indagine fosse di competenza della Corte. Giunti qui, si aprì una nuova questione


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