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Domenica XXXI PA - Mt 23,1-12

Le derive stigmatizzate in questo Evangelo sono un pericolo per tutti perché ciascuno ha, seppur piccolo, un qualche ruolo, un qualche servizio da offrire e gestire e, a volte, lo scivolare nel clericalismo, nella vanagloria laicale può accadere. Ancora peggio è quello di coloro che non prestano per proprio comodo il più piccolo servizio o non mettono nulla delle proprie capacità a servizio di tutti.



Durissimo l’Evangelo di oggi, verrebbe da chiedersi dove sia il “lieto annuncio”. Ma se si sta attenti non è che un condensato dell’intero messaggio di Gesù che la Liturgia in queste domeniche ci sta proponendo, dall’invito a riconoscere che noi siamo chiamati ad essere l’immagine del Padre, della sua misericordia e non del “potere” coercitivo, a quel “Comandamento, quello grande nella legge” che è si condensa in quell’imperativo “Amerai” dal quale dipende tutta la legge e i profeti.

Oggi, in sintesi, l’invito è in quel finale: “Chi tra voi è il più grande, sarà vostro servo. Il vero grande nella comunità non è colui che impone i pesi, ma colui che li toglie, colui che aiuta a portarli, colui che si mette a servizio, perché dice Gesù “chi invece si esalterà”, cioè si innalzerà al di sopra degli altri, “sarà umiliato”, e “chi si abbasserà”, chi si metterà a servizio, “sarà esaltato”. Il rischio che Gesù vuole evitare è che nella sua comunità si stabiliscano rapporti mediante il dominio di alcuni e la sottomissione degli altri. Questo non ha nulla di evangelico, non ha nulla di cristiano. La comunità dei seguaci di Gesù è una comunità di fratelli, dove gli uni vivono per il bene e il benessere degli altri.

Un Padre della Chiesa della seconda metà del IV secolo, Ottato di Milevi, con la sua sollecitudine pastorale che lo ha spinto a cercare e percorrere ogni strada possibile per ristabilire l’unità dentro una Comunità divisa, non ha mai perso di vista il raggiungimento di quella che considerava l’unica, la vera ed autentica “dote della sposa” offerta da Cristo alla Chiesa: la fraternità ecclesiale come il fondamento dell’unità e della comunione.

La fraternità che viene dal Battesimo e rende i cristiani una comunità di uguali all’interno della quale ci sono dei doni, dei carismi particolari, ciascuno ha il suo da esercitare e il servizio dell’uno verso l’altro ha il compito di riconoscerlo, fargli spazio, aiutarlo ad esercitarlo, non reprimerlo. Ogni carisma ha pari dignità, non c’è un “odine” di grandezza che autorizzi a cercare “i primi seggi nelle sinagoghe” come nelle chiese. Questi “seggi” non sono quelli davanti in prima fila come facilmente si può pensare abituati all’orientamento dei banchi nelle nostre chiese pensate su una teologia formata da un senso liturgico che il Concilio Vaticano II ha invitato a superare ma che tarda ad esserlo. I “primi seggi nelle sinagoghe” sono quelli posti in alto, distanti dai credenti “comuni”; posti dai quali vengono dettate norme che legano e non rendono liberi, dimenticando che l’irrompere di Dio nella vita di Israele è stato proprio il liberarli dalla schiavitù, di ogni schiavitù, non solo da quella dell’Egitto. Si dimentica che l’incipit del Decalogo, del Patto stipulato sul Sinài è: “Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla condizione servile” (Es 20,2) e tutta l’Alleanza si può riassumere in un “va e fai altrettanto tu con tutti quelli che incontri nella tua vita”. 

È facile dettare e affidarsi alle certezze delle norme del Diritto Canonico per “guidare” la vita dei credenti spesso imponendo fardelli che escludono e non guardano la sofferenza che provocano. Quando papa Francesco ha delegato ai vescovi il discernimento su tante situazioni come, per esempio, quelle sulla partecipazione ai sacramenti dei separati, dei divorziati, dei risposati, molti hanno sentito mancarsi il terreno sotto i piedi proponendogli dei “dubia” prescindendo dalla misericordia alla quale l’Evangelo invita.

Gesù avverte: “Gli Scribi e i Farisei si sono seduti sulla cattedra di Mosè” cioè su quel seggio che nelle sinagoghe rimaneva vuoto a simboleggiare l’attesa della realizzazione della promessa fatta da Dio che dopo Mosè avrebbe fatto sorgere un profeta come lui (Deut 18,15). Al posto del profeta atteso, per dirla in termini contemporanei, si sono seduti i teologi e i giuristi usurpandone il ruolo. Certo sono necessari anche loro ma quanto dicono va verificato se aderente o meno alla Scrittura, se aiutano o meno a realizzare ciò che desidera il Padre per i suoi figli, se spianano la vita alla sequela o se fanno incappare nelle maglie di una selva di norme che rendono schiavi; se fanno camminare verso la libertà dei figli di Dio o “legano fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”. Quello che interessa loro è la dottrina sulla quale basano tutto il loro potere e tutto il loro prestigio e che per essi è uno strumento di dominio sul popolo. È quel clericalismo, formatosi a partire dal IV secolo, che papa Francesco continua a definire come “il tumore nella Chiesa” duro da sradicare e un primo passo può essere quello stile ecclesiale “sinodale” che ci invita a realizzare e vivere. Ci è chiesto di tornare alle origini, a vivere quella fraternità all’interno della quale il ruolo dei presbiteri e dei vescovi era legata nell’esercizio dell’autorità all’essere “doulos”, nemmeno diaconi, ma “schiavi” del popolo; identità che all’epoca non permetteva nemmeno di diventare dei “liberti”. Anche Marco è chiarissimo: “chi vuol essere il primo fra di voi sarà lo schiavo di tutti” (Mc 10,43-44)

 

È però necessario stare attenti: queste avvertenze di Gesù non sono rivolte solo a chi ha il compito di governare o, meglio, di “sorvegliare” (più pregnante in questa dimensione è il ruolo di “frate guardiano” nelle comunità francescane), ma a tutti coloro che fanno parte delle comunità dei credenti. Le derive stigmatizzate in questo Evangelo sono un pericolo per tutti perché ciascuno ha, seppur piccolo, un qualche ruolo, un qualche servizio da offrire e gestire e, a volte, lo scivolare nel clericalismo, nella vanagloria laicale può accadere. Ancora peggio è quello di coloro che non prestano per proprio comodo il più piccolo servizio o non mettono nulla delle proprie capacità a servizio di tutti.

 

(BiGio)

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