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Domenica XXXIII - Mt 25,14-30

Dopo molto tempo il padrone non “tornò” come scritto, ma “viene” (termine che richiama la seconda venuta del Signore alla fine del tempo), non per riavere il dono fatto (non sarebbe stato un dono), ma per conoscere cosa ne avevano fatto


È l’ultima Domenica di questo Anno Liturgico che si compirà la prossima con la Festa di Cristo Re. Oggi ci viene consegnata l’ultima raccomandazione di Gesù che è una “consegna” da accogliere e far fruttare. Dall’Amerai all’invito ad essere degli anawim, uomini che si pongono al servizio dell’altro secondo il cuore di Dio, rimanendo costanti all’ascolto della sua Parola che è luce ai nostri passi.

La parabola di oggi ci presenta tre servi, tre anawim ai quale il Signore consegna i suoi beni, i suoi talenti “secondo le capacità di ciascuno; poi partì”. Questo Signore conosce gli uomini, sa che non tutti hanno le medesime capacità e non chiede mai a nessuno qualcosa che non può compiere, ma solo quello che è alla sua portata, nulla di più. Per questo affida e distribuisce in maniera differenziata quello che ha. Non c’è discriminazione alcuna tra coloro che hanno detto sì alla sua chiamata lasciandosi coinvolgere nella costruzione del suo Regno fin dal presente. Siamo tutti “fratelli” con carismi diversi, ma tutti uguali e ce lo ha richiamato più volte. Ci ha coinvolto nella cura della sua vigna per produrre il vino, simbolo della festa che è al centro di ogni banchetto da lui preparato e al quale ci chiama a partecipare.

Siamo collaboratori, non mercenari o braccianti che alla fine hanno il loro salario e il loro guadagno. Siamo “servi” della sua volontà per scelta, non per imposizione. È titolo che la Scrittura riserva ai grandi personaggi della storia di Israele come Mosè, Davide, i Profeti che si sono giocati la vita per realizzare quanto il Signore ha chiesto loro nella più totale gratuità. Alla fine non si aspettavano nulla per quello che avevano fatto: non erano dei mercenari. Dovremmo anche noi essere così nonostante una religiosità, tarda nel morire, che continua a promettere il Paradiso se siamo buoni o l’Inferno se siamo cattivi. Non è certamente questa l’immagine corretta del Dio di Gesù Cristo, del Padre misericordioso che compare anche in questa parabola.

 

Quali sono i “suoi beni” che Gesù ci ha affiidato? Non è tanto il suo insegnamento, è quello che alla fine ci consegnasulla croce chinando il capo: il suo Spirito. Si può dire che questo è il verbo principe dell’Evangelo, dell’azione del Padre e di Gesù stesso. In particolare nel racconto della Passione in Giovanni, Gesù non subisce nulla passivamente, ma è sempre lui il soggetto che agisce, che si consegna. Così anche in questa parabola il verbo greco usato è sempre lo stesso: il Signore consegna tutto ciò che ha ai tre servi, la sua stessa identità che ha un valore inestimabile come quello dei talenti. Lui ora agisce attraverso le loro capacità, le nostre capacità, per rinnovare la faccia della terra (Ps 104). Se si ha coscienza di questo dono immenso non si può attendere, non c’è spazio per ragionare ma “subito” si agisce, c’è una urgenza impellente nel portare frutto per quello che siamo capaci. Quale che è “il frutto (al singolare!) dello Spirito” ce lo dice S. Paolo nella sua lettera ai Galati (5,22) “amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” cioè attraverso il controllo del proprio ego fiorisce l’attenzione all’altro.

La possibilità opposta è quella di non accogliere il dono della vita di Gesù e continuare a vivere secondo i nostri istinti, il nostro ego, cercando solo di soddisfare i nostri desideri, rimanendo al servizio di Mammona, del Divisore e dei dividendi economici.

 

Dopo molto tempo il padrone non “tornò” come scritto nella versione che sarà proclamata, ma “viene” (termine che richiama la seconda venuta del Signore alla fine del tempo), non per riavere il dono fatto (non sarebbe stato un dono), ma per conoscere cosa ne avevano fatto e loro ne rendono conto: “ne ho guadagnati altri cinque (…) ne ho guadagnati altri due”. Il commento del padrone è una strana lode: “Bene servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco (…) prendi parte alla gioia del tuo padrone”. L’accento è su quel “fedele”: mettendosi in gioco quei due servi hanno dimostrato di aver moltiplicato amando e servendo il loro prossimo, il dono ricevuto di poter partecipare alla vita divina del Padre seguendo il suo disegno ricco di misericordia. Questa è la “fedeltà” che ci viene chiesta; la fede non è un qualcosa di astratto ed è vuota se non si traduce in uno stile di vita nella sequela. L’averla realizzata porta il padrone a dirci che si è stati un “servo buono e fedele” buono come buono è il Padre: solo a lui spetta questo titolo (Mt 19,17)

La ricompensa? Il prendere parte alla gioia di Dio per sempre che è il tutto, molto di più dell’enorme dono ricevuto (un talento corrispondeva allo stipendio di 20 anni di lavoro). Il terzo servo invece lo mette da parte per conservarlo temendo un Dio giudice severo che reagisce, secondo l’immagine che il servo ha di lui, duramente perché, se almeno avesse messo in “banca” quanto ricevuto in dono, qualcosa avrebbe fruttificato ugualmente. Invece, rifiutando di partecipare alla vita di Dio, si è condannato ad una esistenza senza futuro. 


Gesù parla di una “banca” cioè la vita di ogni Comunità che, con i suoi tempi e le sue contraddizioni, fa comunque fruttare i doni ricevuti.

 

(BiGio)

1 commento:

  1. Grazie infinite per questo commento ed anche per quelli delle domeniche precedenti. Seguo costantemente questo blog che trovo molto interessante

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