IV di Quaresima - Gv 3,14-21

Una qualità di vita indistruttibile che Gesù afferma essere “eterna” ma che non ha dunque nulla a che vedere con una durata infinita nell'aldilà. Cosa significa allora?

 


Nelle scorse tre domeniche abbiamo avuto delle risposte alle domande su Gesù con le quali siamo giunti alla Quaresima. Dio in Gesù si è fatto vicinissimo a noi, in tutto simile a noi per annunciarci che è venuto per trasfigurare la nostra vita. La storia di ogni uomo è diventata il suo tempio, la casa che Lui abita, nella quale ha preso dimora. Come noi e con noi porta il peso della tentazione e la fatica lenta della trasfigurazione che, oggi l’Evangelo ci dice, non sta in un futuro lontano, ma in un modo di vivere.

Gesù parlando con Nicodemo fa due riferimenti alla Scrittura: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.

Soffermiamoci sul verbo innalzare che ricorre due volte. La prima volta evoca quanto narrato nel libro dei Numeri (21,4-9): in seguito alle lamentele per la durezza del viaggio nel deserto, Dio manda fra gli Israeliti dei serpenti velenosi che mietono numerose vittime. Il popolo, pentito, si rivolge allora a Mosè affinché preghi il Signore di allontanare i serpenti. Dopo che Mosè ebbe pregato, Dio gli ordina di forgiare un serpente di bronzo e di collocarlo su di un palo in vista del popolo: chiunque fosse stato morsicato dai serpenti velenosi, si sarebbe potuto salvare solo guardando verso il serpente di Mosè.

In ebraico, il termine per indicare questo serpente di bronzo innalzato, è l’anagramma del nome Gesù, cioè: “Dio salva”.

È per questo che nella basilica di S. Ambrogio a Milano al centro della navata centrale ci sono due colonne messe in parallelo. Sopra di una c’è un serpente in bronzo mentre, su quell’altra, c’è un crocefisso.

Anche sul Monte Nebo c’è un crocifisso stilizzato (l’autore è Giovanni Fantoni) sul quale si attorciglia un serpente.

La seconda ricorrenza del verbo innalzare desidera invece riferirsi alla profezia del libro di Isaia (cap 52 e 53) nella quale parla del servo del Signore che “avrà successo, sarà onorato, esaltato e molto innalzato”. Se ci si ferma qui potrebbe benissimo essere il profilo dell’ascesa, grazie alle sue capacità, di un manager in una grande industria.

Isaia però procede togliendo immediatamente questa immagine dai nostri occhi: il successo di questo servo del Signore sta nell’essersi comportato “come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte tosatori, lui non aprì la bocca. Disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori, che conosce molto bene il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia. Disprezzato, non aveva alcuna stima!”

Questo accade perché “chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Qui è la prima volta che nel Vangelo di Giovanni incontriamo questa locuzione e Gesù non ne parla affatto come un premio per il futuro bensì come una possibilità reale nel momento presente. “La vita eterna” è già oggi per “chiunque crede in lui” e questo significa aver dato adesione a Gesù, alla sua proposta di vita cercando di vivere oggi, ogni istante della nostra vita come lui ha vissuto fino, come giunge ad affermare Paolo: “non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,19-21). 

È questa la qualità di una vita vissuta avvolti nella pienezza dell’amore del Padre, adoperandosi come Gesù ha fatto per gli altri fino a dare la sua vita per tutti. Questa qualità è indistruttibile e per questo Gesù dice che è “eterna”. Non ha dunque nulla a che vedere con una durata infinita. Lo è invece qualitativamente perché fa trasparire in noi il modo di essere di Dio, è il partecipare della sua vita, è il darne spazio nel nostro agire, è il far trasparire in noi la sua vita che è eterna.

Sta all’uomo accogliere o no la proposta di vivere con questa qualità e, rispetto alla sua scelta, si troverà ad essere salvato o condannato. Non è Dio che condanna. Dio “ha mandato suo Figlio perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” e lo ha fatto perché “ha tanto amato il mondo”.

Qui compare per la prima volta in Giovanni il verbo “agapan” (in tutto saranno 36 volte) che, nel greco antico non era praticamente mai usato e lo fa diventare quello che caratterizza l’essere del Padre, di Gesù e di tutti coloro che “credono” cioè aderiscono alla sua proposta di vita. Definisce l’amore incondizionato che fa dimenticare completamente se stessi, per vivere nell’attenzione al bisogno dell’altro e alla disponibilità di dare vita; è dono senza condizioni.

Il vivere così Gesù lo definisce la “verità” che allora non è una dottrina in cui credere, ma un atteggiamento, uno stile di vita che fa trasparire la luminosità della misericordia del Padre. Quello che ci separa da Dio è eventualmente la nostra condotta.

(BiGio)

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