La Liturgia della Domenica delle Palme, dopo la processione, continua con la proclamazione della Passione di Marco sulla quale c’è un consenso quasi unanime che porta ad affermare sia stata scritta prima del 36 dC (data della morte di Caifa che Marco, per prudenza, non nomina mai mentre gli altri Evangelisti sì). Questa è quindi la prima versione che, in seguito, farà da base agli altri tre racconti con le diverse sottolineature teologiche che li contraddistinguono.
Quella di Marco risponde ad un desiderio atavico dell’uomo: vedere il volto di Dio. Il grido “mostrami il tuo volto”, “non nascondermi il tuo volto” oppure “Signore io cerco il tuo volto” è un leitmotiv dell’intera Scrittura, una tensione, un filo rosso che l’attraversa dall’inizio alla fine. È in questa pagina che la comunità credente è chiamata a vedere il volto di Dio.Anche noi siamo chiamati a contemplare nel crocifisso quel Volto che è dono e volontà d’amore fino alla fine, per attirarci tutti a sé e così salvarci come ci ha promesso la scorsa settimana.
Tutti conosciamo il racconto della Passione ma normalmente mettiamo assieme i quattro racconti; non si riesce così a cogliere il diverso messaggio che da ciascuna ci viene proposto.
Proviamo allora a scoprire quali siano le caratteristiche proprie di quella secondo Marco che non sono state riprese dagli altri Evangelisti, abbozzando alcune linee di riflessione lasciando l’approfondimento a quella personale.
Innanzitutto evidenzia le reazioni molto umane di Gesù di fronte alla morte che lo aspetta tanto che “cominciò a sentire grande spavento e angoscia” ed è solo Marco che ci riferisce la preghiera di Gesù al Padre mentre non dice una parola mentre lo arrestano né verso Giuda, né verso chi con la spada staccò l’orecchio al servo del Sommo Sacerdote.
Mostrandoci Gesù mite e disarmato che si consegna senza reagire, Marco desidera dire alla sua Comunità ed anche a noi che ci sono momenti nella vita nei quali non possiamo far nulla che accoglierli. Non è passività supina che ci viene proposta; piuttosto che alla violenza non si deve rispondere con la violenza, con la forza che sono gli strumenti del mondo e non quelli della nuova realtà proposta da Gesù alla quale siamo invitati a far parte. L’invito è quello ragionare secondo Dio non secondo gli uomini e questo è un rimprovero che Gesù aveva già fatto ai suoi (Mc 8,33b).
Coerentemente con questa scelta, durante il processo Gesù risponde solo una volta alla domanda di Pilato che desiderava sapere se lui era re affermandolo: “Si, lo sono” poi più nulla nonostante le menzogne, le falsità, le provocazioni di falsi testimoni: reagire a che avrebbe giovato? Quello di Gesù non è un segno di debolezza ma di forza e non scende al livello di chi è arrogante e cerca solo di difendere un interesse di parte secondo logiche politiche spicciole e mondane. Gesù non si mostra pavido bensì un amante della verità e della giustizia più della sua stessa vita.
A differenza degli altri Evangeli, Gesù nel suo percorso sul calvario e nella morte è sempre solo: tutti lo hanno lasciato, solo delle donne guardano da lontano. È uno sconfitto che ha fatto l’esperienza dell’impotenza, del fallimento nella lotta contro l’ingiustizia. È l’esperienza possibile a chiunque cerca di vivere in modo coerente alla sua sequela, Gesù ce l’ha detto e ce l’ha mostrato.
Durante la sua cattura c’è un particolare che normalmente viene letto come un momento autobiografico da parte di Marco: c’è un giovane avvolto in un lenzuolo bianco che, quando le guardie cercano di catturarlo, scappa via nudo lasciandolo nelle loro mani. Se pensiamo che quel lenzuolo in greco viene chiamato “sindone”, cioè il panno nel quale venivano avvolte le salme nude, allora è possibile leggere un accenno che anticipa la fine del racconto: ciò che rimane nella tomba è un lenzuolo bianco, una sindone, il corpo non c’è più. Certo, hanno catturato Gesù ma cosa rimarrà nelle mani delle guardie al servizio dei poteri del mondo? Una sindone, non la persona che ne era avvolta. Alla fine della vita che cosa lasciamo al mondo se non che solo il nostro corpo mortale, certamente non la nostra persona…
Sotto la croce si chiude l’Evangelo di Marco (i racconti della risurrezione sono una aggiunta postuma) con l’affermazione fatta da un pagano che richiama parola per parola il primo versetto di questo Evangelo: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. È la risposta alla domanda che ha percorso l’intero testo e Marco ci ha condotto a comprenderlo: è figlio non nel senso di generato, ma perché gli assomiglia in tutto. Pietro, rispondendo alla domanda di Gesù, aveva affermato che lui era “il Cristo”, l’Unto, il Messia atteso. Solo sotto la croce, guardando in alto a quelle braccia aperte, è possibile comprendere pienamente vedendolo “spirare a quel modo” e, questo, è possibile a tutti gli "uomini di ogni nazione, tribù popolo e lingua" (Ap 7,9).
Quale modo? L’accento non è sulle sofferenze, ma sull’aver vissuto l’intera vita secondo la volontà d’amore del Padre per tutti gli uomini, affidandosi a Lui con quel salmo di speranza, il 21, il cui incipit sono le sue ultime parole in Marco. Morire in croce per portare ovunque l’amore di Dio, anche coloro che si diceva essere da Lui maledetti: coloro che morivano per condanna “appesi al legno” (Dt 21,22)
(BiGio)
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