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Gv 10,1-10 - IV Pasqua: "Io sono la porta delle pecore"

L'immagine che ci viene subito in mente se si parla di Gesù come il buon pastore ben poco ha a che vedere con l'Evangelo di oggi e a quello che la Liturgia di questo periodo pasquale desidera farci scoprire.

Ogni anno, la quarta domenica di Pasqua è dedicata al tema di Gesù buon Pastore. Questa è un’immagine che è sempre stata cara ai cristiani che a partire dal III secolo hanno cominciato a rappresentare Gesù giovane, vestito dalla corta tunica, la cintura ai fianchi, i calzari ai piedi come erano soliti vestire i pastori del tempo.
 Come pure automaticamente trasferiamo questa immagine di Gesù sugli attuali “pastori”, preti e vescovi. Questo però ci porta molto lontano dal messaggio che la Liturgia di oggi desidera darci guidandoci in questo periodo pasquale alla scoperta di come Gesù sia presente nella Comunità.     
Il brano di oggi non è una parabola e non è nemmeno una allegoria; è invece un quadro simbolico che funziona per opposizioni letterarie: entrare o no per la porta, seguire o fuggire, conoscere o no la voce del pastore. All’inizio e alla fine sono indicate figure negative mentre al centro, per contrasto, quella positiva del pastore.
Le immagini che Gesù usa per dire chi è il pastore e chi non lo è, sono radicate nel terreno dell’intera Scrittura, quasi seguendo l’invito dato la scorsa settimana ai discepoli di Emmaus. Si ritrovano infatti nel Libro delle Parabole di Enoc, come anche nel Pentateuco dove vengono definiti “pastori” del popolo Mosè, Giosuè, i Giudici e pure l’imperatore persiano Ciro; i profeti poi tuonano contro i pastori che sfruttano e lasciano allo sbando le pecore loro affidate. In questo modo, radica nella Bibbia l’autodefinizione del Risorto come il pastore. 
Io sono” dice Gesù (bisogna ricordare che questo termine traduce in greco il Nome di Dio) “la porta delle pecore”: ma la porta per la quale si accede al recinto delle pecore, oppure attraverso la quale passano le pecore? In genere automaticamente si propende per la prima ipotesi, ma l’intera pericope parla di un solo pastore che vi accede e i personaggi diversi da lui entrano non usando la porta ma scavalcando il recinto e finiscono per uccidere le pecore quando riescono a distoglierle dal seguire la voce conosciuta del pastore. Inoltre Gesù non dice di essere né il guardiano né la porta del recinto, ma “la porta delle pecore” attraverso la quale queste entrano ed escono liberamente e le fa uscire spingendole fuori con forza, quasi con impazienza; cammina davanti a loro ma apparentemente non dice verso dove. Lo indica però con chiarezza il verbo adoperato che è quello che viene usato per indicare il cammino del ritorno di Gesù al Padre attraverso il dono di sé stesso. Questo è allora un altro chiaro invito, ripetuto continuamente papa Francesco, ad uscire dai recinti per porsi alla sequela del Signore sulla strada del dono di noi stessi per gli altri.
Gesù è la porta che conduce alla vita e dalla quale si può liberamente “entrare ed uscire” che non è un fare quello che piace. Questa opposizione letteraria desidera invece sottolineare la libertà del discepolo in seno al gregge; si tratta della libertà di andare e venire sotto la guida dell’unico Pastore che ha “liberato”, spinto fuori le pecore e attenzionenon tanto da un ovile qualsiasi perché, su 177 volte che questo termine appare nella Scrittura, per 115 volte indica l’atrio del Tempio. 
Il verbo poi usato per indicare la liberazione delle pecore da parte di Gesù è il medesimo adoperato per descrivere l’azione di Dio nel far uscire il suo popolo dalla schiavitù dell’Egitto e, come allora, per farci entrare non in un altro recinto o situazione di oppressione, ma in uno spazio di libertà nel quale si “troverà pascolo”. Qui l'evangelista gioca sui termini della lingua greca nella quale pascolo si dice “nome”, mentre legge si dice “nomos”. Allora, con Gesù, non si trova una legge a cui obbedire, ma si trova pascolo, cioè un alimento che dà la vita in un mondo di libertà nel quale si può essere realmente persone vere, in tutto somiglianti al pastore.
 
L’invito di questa domenica quindi è quello di accettare che Gesù ci liberi dai recinti nei quali ci troviamo reclusi: quelli di una religiosità prigioniera di una falsa immagine di Dio come padrone, legislatore, giudice rigoroso; quelli delle seduzioni dell’uso del potere per porre al centro noi stessi invece che il bisogno dell’altro; quelli degli idoli che condizionano le nostre scelte di vita: il denaro, la carriera, il successo; quelli delle abitudini, del si è sempre fatto così, come quelli dei vizi, della corruzione morale, dei compromessi e, primo fra tutti, quelli di una struttura religiosa divisa tra chi ha potere e chi deve rimanere sottomesso invece che di una Comunità dove regna la fraternità e all’interno della quale ci sono servizi e ministeri alla pari nel servizio di tutti. Tutto questo a favore della realtà nella quale vive e di tutti coloro che incontra sulle strade del mondo: non è forse questo l’invito di papa Francesco con quel suo “la Chiesa in uscita”? quel suo dire che “il clericalismo è il tumore della Chiesa”?
 
In questo Evangelo nessun appiglio trova il trasferimento del ruolo di Gesù nei presbiteri essendo lui l’unica porta delle pecore. È una operazione avvenuta solo più tardi nella letteratura ecclesiastica quando è stato necessario dare una struttura alla Chiesa una volta diventata religione di stato tra la fine del III e l’inizio del IV secolo della nostra era. Sarebbe forse giunto il momento di ripensare il ruolo del ministero presbiterale all’interno del sacerdozio universale che è proprio della Comunità, alla luce della Scrittura e non del Diritto Canonico come anche afferma il card.  Lazzaro You Heung-sik prefetto del Dicastero per il clero (vedi l’intervista a questo link: https://parrocchiarisurrezione.blogspot.com/2023/04/essere-cristiani-e-essere-liberi.html). In fin dei conti è questo che la Liturgia in queste settimane pasquali ci sta facendo scoprire.

(BiGio)

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